Scriveva Goethe che “dove c’è molta luce, l’ombra è più nera”. Nera, corvina, profonda come petrolio è quella dipinta da Andrea Chiesi (Modena, 1966). Traccia di un’esistenza che si è spenta, di un’utilità che si è persa, di un abbandono che non lascia scampo al decadimento. Edifici che hanno vissuto nelle attività umane, ormai perse, si svelano e si mostrano, per lasciare che l’occhio del pittore filtri il loro messaggio; testimonianze di un tempo che è ormai passato e di cui rimane solo la silenziosa immobilità degli spazi.
Le stanze sono vuote, mute, sole. Corridoi immobili, scale silenti. Piante, fogli, faldoni, persino un calcio balilla; e automobili e cartelli avvolti dallo scuro manto di una funzione che non esiste più. Edifici figli di un periodo storico impossibile da dimenticare, che portano nomi evocativi, come la Casa del Fascio di Predappio, l’ex Ospedale sanatoriale per tubercolotici Paolini di Montecatone o l’ex Colonia elioterapica di San Martino Secchia rivivono in immagini statiche, in bianchi e neri senza scala di grigi, dall’espressività emotiva fortissima.
Immagini che parlano senza parole, che trasmettono la propria quiete, il senso di attesa; contemporanee Fortezze Bastiani, in cui il tenente Drogo non è ancora giunto, dove “la camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero”.
L’oscurità è la somma dei colori dello spettro, non l’assenza di colore. È la memoria storica, la summa delle esperienze di chi ha popolato nel tempo quei luoghi, e rimane viva grazie alla presenza fisica degli edifici.
Andrea Chiesi abbandona l’archeologia industriale per andare questa volta a indagare luoghi in cui l’uomo non è più strumento di produzione, ma destinatario di cure, di attenzioni; protagonista unico, fisicamente e intellettualmente. Un cambio di direzione che filtra dalle tele, in cui la presenza umana diventa quasi tangibile nella sua assenza. Uno scarto che porta lo spettatore a immaginare, nelle stanze deserte, non più macchinari ma persone in carne e ossa, impegnate in attività assolutamente non produttive; una totale assenza di materiale inorganico a cui si sostituisce una fortissima presenza vitale, un anti-isolamento.
Come affermava Louis-Ferdinand Céline nel suo Viaggio al termine della notte, “tutto quello che è interessante accade nell’ombra, davvero. Non si sa nulla della vera storia degli uomini”. È proprio questa l’ombra dell’elogio del pittore modenese. L’ombra dell’uomo che, nella sua invisibilità, ha plasmato il tempo, creando il presente.
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