Talvolta il riconoscimento di un artista esplode in un baleno, cogliendo tutti di sorpresa. Altre volte avviene in modo lento e graduale. In molti, per lungo tempo, hanno cercato di fare chiarezza sulla produzione artistica di
Giorgio Morandi (Bologna, 1890-1964), pur traendone scarsi risultati. L’anno in corso vede, invece, un
continuum di appuntamenti che investe di nuova luce il suo percorso artistico.
La mostra che si è conclusa pochi giorni fa al Mambo di Bologna ha proposto una lettura al tempo stesso cronologica e tematica dell’opera pittorica. L’esposizione che inaugurerà a maggio al Museo Morandi mette a confronto la poetica dell’artista e quella di
Filippo De Pisis. La presentazione dell’opera calcografica a Palazzo dei Diamanti è pensabile, dunque, come la tappa intermedia di questo viaggio alla riscoperta di uno degli artisti più “difficili” del Novecento. Difficile sia perché caratterialmente schivo e poco incline a parlare di sé, sia per la densità del suo lavoro, in apparenza semplice e ripetitivo.
Produzione pittorica e produzione calcografica, nel caso di Morandi, sono inscindibili. Inizialmente l’artista si dedica all’incisione in modo discontinuo, abbandonando e poi riscoprendo le sue acqueforti. Solo nella seconda metà degli anni ’20 riprende a interessarsi a quest’arte “minore” con continuità , e i primi acerbi esperimenti d’impronta cubo-futurista lasciano il posto a lavori maturi e tecnicamente perfetti.
Lo studio delle ombre e dei volumi e l’attenzione maniacale per i dettagli sono elementi chiave per addentrarsi nel suo lavoro. Le singole opere sono universi visivi in miniatura: paesaggi, nature morte, mazzi di fiori di campo ritornano sia nelle incisioni che nella tela. Si percepisce la difficoltà dell’artista nel ritrarre la figura umana, forse per non violarne l’intimità . Poi, però, quando prova a superare quest’ostacolo, dà prova di un’abilità sorprendente.
Morandi osserva la realtà e le cose e rielabora ciò che vede in modo assolutamente personale. Riproduce la stessa composizione più volte, ma osservandola in momenti diversi, al variare dell’ora del giorno. La bicromia crea volumi e piani inaspettati, e spesso gli oggetti ritratti (si pensi alle conchiglie) perdono ogni connotazione figurativa e si trasformano in pure forme astratte.
L’artista lavora con lentezza, si sofferma sui particolari, pensa e ripensa. Il giardino di via Fondazza, dove si trova il suo studio, torna spesso nelle incisioni, e così anche il paesaggio campestre di Grizzana, dove si avverte “
l’eco remoto di un’estate infinitamente polverosa”, come scrive Francesco Arcangeli, autore di un testo imprescindibile per capire la poetica morandiana.
La pacatezza del gesto, a volte, lascia il posto al virtuosismo e si trattiene il respiro di fronte al tratteggio fitto delle chiome dei pioppi, alle porzioni d’ombra e agli squarci di luce sulle colline. Quella stessa luce che s’insinua poi, silenziosa, fra le bottiglie e le scatole delle composizioni. Ricreate, di volta in volta, da Morandi sul piano imperfetto del suo microcosmo.