Una delle maggiori soddisfazioni nel visitare una mostra e soprattutto una mostra d’architettura, è di avere come guida il protagonista dell’esposizione. Vittorio Gregotti, presente alla giornata di apertura di questa raccolta dei suoi progetti, percorre con i visitatori le sale del nuovo Museo dell’Architettura insediato nella Casa di Biagio Rossetti, commentando con pacatezza le realizzazioni. È un progettista fortunato, Gregotti, che con il suo numerosissimo staff, è uno dei pochi, se non l’unico, architetti italiani che riesce in Italia a progettare grandi, grandissimi interventi come quello per l’area dell’ex zuccherificio di Cesena e quello, soprattutto, della Bicocca di Milano. Un vero e proprio pezzo di città. Quest’ultimo progetto, che l’architetto definisce “un centro storico nella periferia milanese”, è ampiamente documentato nella esposizione ferrarese attraverso plastici, disegni, e fotografie delle opere in corso e di quelle già terminate. E già, perché l’intervento è talmente vasto da richiedere molti anni per la realizzazione Questo è un po’ il leit motiv dell’incontro: il tempo. Ormai la ricerca progettuale della Gregotti Associati si è indirizzata verso interventi a larghissima scala: l’ultimo progetto vinto è ad esempio una nuova città per centomila abitanti in Cina (Pujiang, Shanghai) e viene documentato attraverso bellissimi disegni, che ricordano un po’ Frank L.Wright nell’irreale progetto Living City del 1958.
È abbastanza inconsueto che un architetto europeo progetti e realizzi vasti interventi urbani e urbanistici, ma è lo stesso Gregotti che ci richiama a riflettere sulla globalizzazzione dell’architettura: l’Europa, e in special modo l’Italia, sono avare nell’investire in nuove progettazioni. Egli dice che l’Italia è un paese vecchio e che la sua caratteristica è quella di rifare, recuperare, restaurare. Non è così dappertutto. Fuori c’è un mondo intero dove si fa, dove si realizza, e quel luogo, meta per gli architetti, deve essere solo raggiunto, come lui ha raggiunto paesi distanti quali l’Ucraina o appunto l’Oriente.
Nonostante il pessimismo noto dell’architetto milanese nei confronti dell’identità dell’architettura europea, non si possono non studiare con attenzione i molteplici progetti che sono stati fatti per l’Europa: la specificità, il carattere delle diverse geografie, che differenziano il vecchio continente, sono riproposti in lineari e chiare citazioni nei progetti: la pietra locale usata nel rivestimento di facciata del Centro Culturale di Belém a Lisbona definisce un rapporto dialettico con l’antica chiesa giustapposta, o l’uso del mattone nelle case di Lützowstrasse a Berlino ricorda una Germania gotica. Le memorie collettive di una cultura non tanto europea quanto occidentale sono continuamente riproposte nei progetti, organizzate secondo un preciso e rigoroso principio: la ricerca della regola. Perché innanzi tutto Vittorio Gregotti è un progettista, un protagonista che ha deciso di seguire quello che gli insegna la storia e non le mode: costruire un’architettura civile, senza la ricerca dell’applauso. Questa mostra ha colto sottilmente questo insegnamento progettuale dell’autore: passare dai principi al costruito.
Chiara Visentin
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