“Questo è un vero autentico artista, il migliore dei moderni”. Con queste parole
Giorgio Morandi, grande amico di Luigi Magnani, avvallava con ammirazione l’opera di
Alberto Burri (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995) acquistata appena un giorno prima, un
Sacco datato 1954, che diventerà uno dei pezzi forti della collezione Magnani-Rocca. Da qui parte la linea espositiva di una mostra antologica che tocca le tappe principali del percorso dell’artista. Al punto che è ora l’artista italiano più rappresentativo nel mondo, assieme a
Lucio Fontana. Grazie a un’attenta cernita della collezione Burri di Palazzo Albizzini a Città di Castello, lungo le sale della Fondazione Magnani si possono difatti ripercorrere i momenti di una vita artistica fuori dai canoni del tempo. La vita del
Migliore, colui che ha preceduto e influenzato, con la sua carica rivoluzionaria pittorico-plastica, le generazioni successive e movimenti come la Pop Art o il New Dada. Che ha scandalizzato i benpensanti, rimanendo sempre coerente alle proprie scelte, anche di carattere politico. Provocatorio ma “classico” nel senso più letterale del termine, attento all’armonia dei rapporti tra forma e spazio, anche nella frattura.
“Le parole non significano niente per me, esse parlano intorno alla pittura. Ciò che voglio esprimere appare nella pittura”: così affermava, con quell’esistenza povera di parole, che ha sempre parlato solo e soltanto attraverso l’arte. Dice bene il titolo,
La misura dell’equilibrio. Poiché quest’ultimo rimane sempre elemento fondamentale nell’opera rigorosa di Burri, dove nulla viene affidato al caso e il giudizio dello spettatore è parte fondamentale.
Notevoli le opere selezionate (anche se qualche
Sacco in più non avrebbe guastato), e se -rispetto alla grande retrospettiva di Reggio Emilia del 2002, curata da Chiara Sarteanesi- le opere presenti sono ovviamente in numero minore, nessun “ciclo” manca. A partire dai
catrami e le
muffe della fine degli anni ’40, dove Burri interviene come su un organismo, con le sue escrescenze e mutazioni, i
gobbi, dove invade lo spazio del visitatore, i
sacchi -novità assoluta e sconvolgente- che ripropongono il dolore degli anni della prigionia in Texas e che, negli anni ’50, provocano scandalo. Alla stregua dei ferri, i legni e le plastiche che aggredisce con quel fuoco demiurgico che crea forme e non distrugge (da segnalare la voragine di
Rosso plastica del 1962 e
Combustione legno del 1955), fino ai
Cretti e alla duttilità dei
Cellotex. Vere chicche della mostra, opere raramente visibili, di piccolo e piccolissimo formato, preziose e d’una bellezza straordinaria. Merita infine una menzione la
Combustione con dedica del ‘61, donata dall’artista a Magnani per suggellare un rapporto di stima reciproca. A conclusione dell’esposizione, la sublime resa finale del nero dei
cellotex scorticati degli anni ’80 e dei
Neri e Oro degli anni ’90, di grandi dimensioni. Quel nero potente che in lui ha così numerose variazioni tonali da diventare, sorprendentemente, colore.