Nel 1720, San Pietroburgo era ancora un grande, caotico cantiere sulla Neva. Il sogno che diveniva realtà di uno zar, Pietro il Grande, affascinato dall’arte e dall’architettura dell’Occidente. Possiamo immaginare che lo zar abbia accolto con entusiasmo il dono del suo agente commerciale a Venezia, un dipinto con la
Deposizione attribuito nientemeno che a
Raffaello. Oggi sappiamo che l’autore di quell’opera era
Benvenuto Tisi detto il
Garofalo (Ferrara, 1481?-1559), uno dei principali esponenti del Cinquecento ferrarese. Era il primo dipinto del rinascimento italiano ad arrivare in Russia.
Forse, allora, non è un caso che la prima iniziativa della Fondazione Ermitage Italia sia una mostra dedicata a lui, il Garofalo, artista apprezzato dai contemporanei ma sottovalutato dalla critica successiva, al punto che oggi il suo nome è quasi sconosciuto. Ed è un peccato, perché Garofalo è un artista molto piacevole, che seppe “
fondere le diverse parlate della cultura figurativa del tempo in una lingua fluida e bella”.
La mostra allestita negli spazi suggestivi del Castello Estense e corredata da un ottimo catalogo, ne ripercorre la carriera con una settantina di dipinti:
piccoli quadri devozionali (il tema della Madonna con Bambino è uno dei più frequenti), pale d’altare (un capolavoro assoluto è la
Pala Suxena della Pinacoteca di Ferrara), alcune tele di grandissime dimensioni, come quelle realizzate negli anni ‘30 per il convento di San Bernardino e ora all’Ermitage (tra queste,
Le Nozze di Cana, che rappresenta un fatto religioso come una raffinata e vivace favola), poche opere di soggetto profano. L’esposizione propone anche un raffronto con artisti vicini al Garofalo:
Panetti, che secondo Vasari fu il suo primo maestro,
Bocaccino,
Francesco Francia,
Dosso Dossi.
Gli esordi di Garofalo sono nel segno di Panetti e Boccaccino; poi l’incontro con la pittura veneta e la sensibilità coloristica di
Giorgione, l’attenzione al paesaggio e alla natura. Garofalo si dedica a una pittura meno disegnata e lascia spazio al colore; comincia a inserire nelle opere piccoli paesaggi in cui le nubi si sfilacciano nel cielo, la luce azzurrata avvolge le colline, lo sguardo può perdersi nel sinuoso andamento di un fiume (uno per tutti, il paesaggio della
Pala di Codigoro degli Uffizi).
Forse, tra il 1512 e il 1513 Garofalo intraprese il viaggio a Roma di cui parla Vasari; qui la pittura di Raffaello è una rivelazione che imprime una nuova svolta al suo stile. Da questo momento s’impegna a conciliare la solida rotondità delle forme di matrice raffaellesca con la magia del colore veneto (la citata
Pala Suxena è il frutto di una perfetta fusione tra le due componenti).
Dagli anni ‘30 il pittore si mostra sensibile a nuovi influssi, le figure si allungano e assumono pose complicate, una grazia quasi affettata riflette l’eco del nascente manierismo (i due
Noli me Tangere in mostra).
Se lo stile di Garofalo si aggiorna continuamente, c’è qualcosa in cui rimase sempre fedele a se stesso: la capacità di “
vivere il sogno classico di un mondo sereno in cui l’uomo si commisura con un ambiente di estrema bellezza al di sopra degli affanni e dei dolori” (Lucco).