Acqua, acqua e ancora acqua. La nuova serie di scatti di
James Casebere (Lansing, 1953; vive a Fort Greene, Brooklyn) presentata da Marabini è letteralmente allagata. La fluidità dei pavimenti è decisamente il punto focale nelle grandi stampe in mostra. E questo almeno per tre ragioni.
Sicuramente perché l’utilizzo di un piano specchiante, com’è quello creato da una superficie liquida, permette riverberi luminosi e cromatici altrimenti impossibili. Le fotografie, infatti, sono ricche di riflessi, di varia forma seppur di un’unica natura, che contribuiscono a creare un impatto estetico di notevole intensità.
In seconda istanza, il moto ondoso del suolo è il pretesto per un riferimento incrociato. Da una parte si colloca l’esperienza personale dell’artista, che racconta di passeggiate nell’umido e scuro sottosuolo bolognese (che darà luogo a uno degli scatti e influenzerà tutta la serie). Dall’altra si colloca una riflessione personale sulle brutture della politica estera americana che suona come: “
Non riuscivo a togliermi dalla mente il Rendition Program e così ho trasformato questa particolare stanza in una generica cella da interrogatorio, semplicemente aggiungendo una sedia e la terrificante presenza di un sottile strato di acqua nera sul pavimento”, come dichiara lo stesso Casebere nella presentazione.
Terza ragione per cui la presenza acquosa appare come chiave di lettura: il rapporto che intercorre con il lavoro passato dell’artista americano. Nei cicli precedenti, l’acqua alternava il suo (anti)protagonismo o in veste di “grande assente”, o, in altri panni, come se fosse evaporata, o ancora, come accade per
Flooded Cell, nel caso in cui l’“alluvione” è drammaticamente avvenuta.
Gli spazi rappresentati sono carichi di una compenente claustrofobica, stretti, bui o male illuminati. Costretti da tre pareti e da un soffitto non particolarmente arioso, gli antri incorniciati sono, inoltre, facilmente assimilabili a prigioni, a camere di tortura. Nasce così
Interrogation Room, la più inquietante, quella a cui riferisce Casebere parlando di una trasformazione che da tugurio del sottosuolo felsineo la rende luogo di supplizio.
“
Queste celle diventano ancora più terrificanti quando vediamo, attraverso una piccola porta di uscita, la luce che penetra attraverso le sbarre di ferro, lasciando intravedere l’immagine e lo scroscio del mare dove le navi ormeggiavano, aspettando il carico degli uomini. Così la selvaticità marina e l’inaccessibile isolamento dei muri si uniscono in perfetta armonia”: è quanto scrive il Premio Nobel Toni Morrison per l’imminente catalogo dell’artista.