“
Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”. Per Dante Alighieri forse Ulisse osò troppo. Con la sua sete di conoscenza, valicò limiti fisici e geografici oltre i quali campeggiava l’utopia, il non-luogo. Ecco che allora, per due icone archetipiche del viaggio quali Ulisse e Dante, il luogo fisico evapora facilmente, fino a sconfinare nel luogo mentale di cui parlerà Joyce. Lo spazio fisico scivola fluidamente in uno spazio psichico e il termine “viaggio” si arricchisce di uno spessore nuovo, divenendo mero significante, il cui poliedrico significato sarà costruito individualmente. Ciascuno col proprio “altrove”. Ciascuno col proprio “esotismo”.
Risiede qui il vero motivo per visitare questa mostra: chi attende un allestimento all’insegna del “polveroso” contenitore storiografico o un’esposizione da vedere soltanto, rimarrà deluso. Questa volta si tratta di varcare una soglia (quella fisica delle sale museali) per apprestarsi a “sentire” opere d’arte visiva. A percepirle attraverso i cinque sensi.
A percorrerle attraverso quattro continenti (Africa, Asia, Sudamerica, Oceania). Non più, dunque, attraverso i consueti parametri didascalici della cronologia o della critica storico-artistica.
Sono artisti, solo per citarne alcuni, del calibro di
Klee,
Macke, Gauguin, Matisse e
Duchamp (con la sua
Boîte-en-valise) a condurre il visitatore per mano. Ciascuno nella propria evasione. Ma sono anche alcuni grandi nomi italiani (tra gli altri,
Chini, Boetti,
Schifano,
Mondino e
Ontani) a improvvisarsi “ciceroni dei sensi”. Artisti apolidi e cosmopoliti che hanno da sempre sedotto, parlando ciascuno a proprio modo di “terre promesse”.
I concetti di “primitivismo” e “orientalismo” rappresentano qui solo il falso-bordone sui cui danza la melodia, creata dalla sinfonia dei sensi. Ma, in fondo, la traduzione plastica matissiana del rumore del mare o la conversione in estetica di un’impressione (quella che lo stesso
Matisse prova praticando lo
snorkeling) o, ancora, la concretezza materica che
Gauguin riesce a infondere al “
cielo senza inverno” (
Noa Noa) dei giorni tahitiani altro non sono se non il
la all’esperienza simbolica e soggettiva del “viaggio”.
Ma anche l’Africa di
Moille e
Kokoschka, accanto al Giappone di
Mathieu o all’Afghanistan di
Boetti, sono scrigni di memorie percettive, all’insegna dei colori sciolti nella luce abbacinante di un mattino o nel profumo speziato dei suk. E così lontani dalle (ben precedenti) deformazioni immaginifiche di un
Ingres, che dipinse harem vagheggiati ma mai esperiti.
Non resta, dunque, che chiedersi con una punta di curiosità che mai potrà essere saziata cosa avrebbe pensato di questa mostra lo stesso Dante, che di Ravenna (alveo della crasi culturale e artistica tra Oriente e Occidente) fece la sua città d’elezione. E, guarda caso, il punto di partenza del suo ultimo viaggio.
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rassegna provinciale, del vorrei ma non posso, impostata in maniera metodologica scorretta