Immagini ferme della storia. Tanto simili a quelle che la televisione trasmette con frequenza. Qui, però, sono immobilizzate dallo scatto di Patrick Andrade. Foto su cui trattenere lo sguardo. Foto da guardare, tanto, per immedesimarsi, per pensare. Fare –forse- un po’ d’ordine, cause ed effetti, catene di violenza e lutti.
Un cuore rosso tatuato su un braccio, il volto coperto di un uomo che si allontana da Ground Zero, la strada bianca come neve e poi il fumo nero sullo sfondo, l’Iraq vicino, un uomo di spalle, il braccio teso, come per un’invettiva, la voglia di lottare. Frammenti, tanti. Una vasta distesa dall’Afghanistan, un paesaggio come virtuale, un binario spezzato al centro, la terra di cenere intorno, una sorta di vagone capovolto.
“Ho iniziato per esprimere me stesso” dice durante l’inaugurazione il fotografo statunitense non ancora trentenne “poi sono cambiato, fotografavo non tanto per comunicare ma proprio per capire. Ora io credo che il reportage stia ritrovando la motivazione delle origini: dare un contributo alla Storia attraverso le foto, vivere direttamente particolari condizioni di vita, farle conoscere“.
Andrade parla poco distante dall’immagine dell’uomo morto sulla sabbia, una delle foto senza titolo, fatte in Iraq, una decina, c’è scritto solo aprile- luglio 03: “ci vuole distacco, è necessario saper prendere le distanze, ma non sempre è possibile. Parlerei per ore di quella foto“, spiega ricordando gli istanti della fine, la soddisfazione dei due soldati che avevano ucciso il nemico, vero o immaginario. Alla fine è arrivato a comprendere anche il loro stato d’animo.
Non c’è percorso cronologico nella mostra: questo è il presente. Tre scatti per New York 2001, nine eleven, un fiume di persone in una foto: senza più correre, solo un grande esodo, l’occidente improvvisamente fragile, ancora sbigottito. Alcune immagini in bianco e nero per l’Afghanistan, occhi neri, lucidi d’emozione, spesso paura, gennaio-marzo 2002, e poi però anche molto colore, negli abiti delle donne, in un gruppo di ragazzine in movimento, i volti luminosi. Testimonianze. Già pubblicate su riviste prestigiose, americane ed europee.
Verità della pena e ricerca estetica: come per quelle ombre scure che attraversano dei binari su uno sfondo rosso. Sono soldati e prigionieri. La guerra: tracce del tempo e dello spazio, perché anche nella quiete, nelle parentesi di serenità registrate, c’è un sentimento d’attesa, di minaccia.
valeria ottolenghi
mostra visitata il 24 settembre
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