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fino al 22.II.2004 | Perino & Vele | Ferrara, Pac

di - 15 Gennaio 2004

Quando e come è nato il vostro sodalizio artistico: sono stati motivi personali o un comune percorso di ricerca a farvi incontrare?
Ci siamo conosciuti tra i banchi del Liceo Artistico di Benevento e abbiamo frequentato la stessa classe fino diploma. Già in quegli anni si instaurò un bellissimo rapporto che via via, anche dopo gli anni del liceo, si è andato rafforzando. Si condivideva la quotidianità con un comune modo di percepire le cose e il grande piacere di passare intere giornate a lavorare. L’inventare il mondo, la vita e costruire nuovi linguaggi ci prendeva totalmente. Ci siamo così trovati a lavorare insieme intorno alla stessa idea. Siamo diventati di fatto una coppia che lavorava nel mondo dell’arte. In quegli anni nacque la ricerca sulla cartapesta, materiale che ci affascinava ma che non riuscivamo a capire, tanto che lo mascheravamo. Poi con il tempo capimmo di poter raccontare quello che avveniva intorno a noi proprio macinando l’informazione quasi sempre omologata e banale dei quotidiani per crearne una nuova.

Uno dei mezzi attraverso cui gli artisti contemporanei hanno cercato di modificare ìl valore della realtà è stato alterandone e nascondendone la superficie. Anche voi aggiungete agli oggetti una nuova pelle di cartapesta per alterarne il significato?
Più che aggiungere, ricostruiamo l’oggetto, facendolo apparire sempre riconoscibile ma con un valore estetico e concettuale diverso. Vedi, noi cerchiamo non solo di reinventarlo il mondo ma anche di umanizzarlo. Un gioco tra l’ironia dei significati e l’ambiguità dei materiali che rappresenta il mondo che ci circonda, soprattutto quello della cultura partenopea, espresso in una sorta di antagonismo comunicativo.

Come emerge anche in questa mostra al Palazzo Massari di Ferrara sembra che il vostro lavoro abbia subito una netta evoluzione, un cambiamento di direzione.  Qualche tempo fa avete realizzato un’istallazione che riproponeva il vostro studio. Insomma è forse arrivato il momento di guardare verso se’ stessi e riflettere?
Abbiamo sempre giocato con la capacità dello spettatore di riconoscere nelle nostre sculture la propria realtà quotidiana, mostrandogli attraverso una luce nuova, il mondo degli oggetti che ci circondano. Nei nuovi lavori non è mutato lo scopo di coinvolgere lo spettatore, quello che è mutato è lo strumento utilizzato a tale scopo: non misurandoci soltanto con degli oggetti, con delle sculture, ma con l’intero spazio messo a nostra disposizione per la mostra, trasformandolo in una sorta di appendice del nostro studio. Qui il nuovo consiste nel tornare indietro, creando un lavoro che concettualmente mostri ciò che accade in studio durante la realizzazione dell’opera che tutti noi conosciamo. Lo scopo è anche quello di trasmettere all’osservatore, le stesse sensazioni da noi vissute in studio ( fatica, odore, umidità, rumore, ecc.), macerando pagine e pagine di quotidiani, cartapesta che rimane semplicemente ammassata nell’attesa di essere utilizzata.

Sono parecchi gli artisti che lavorano con la cartapesta. Il vostro lavoro, tuttavia, si distingue in quanto la carta che usate è quella su cui vengono stampati i giornali. Perchè?
Il quotidiano è fatto per durare un giorno, sei tu a decidere se conservarlo o gettarlo. La carta scolora, ingiallisce portando via tutte le notizie. Noi blocchiamo questo processo creando un informazione tridimensionale simile alle immagini 3D che lo rendono un prodotto sociale dando concretezza all’informazione. Le pagine diventano un miscuglio di parole e immagini, un impasto mediatico che torna a comunicare. La cartapesta acquista un valore importante, materiale che all’occhio di tutti si mostra impersonale ed insignificante.

..E’ il riciclo dunque l’elemento determinante. E attraverso di esso sfuggire ai meccanismi di un capitalismo vorace, alle logiche di mercato?
Parlare di riciclaggio sicuramente sposta il nostro lavoro verso una dimensione di critica sociale. Il contenuto del nostro lavoro, spesso ironico e divertente, nasconde il mondo della cronaca, dove la rigidità degli avvenimenti vengono ammorbiditi dalle forme in cartapesta. Riciclare quotidiani significa recuperare materiale in disuso, riportarlo alla vita, renderlo di nuovo partecipe e allo stesso tempo risparmiare sulla produzione.
Tutto ciò può in qualche modo muoversi nell’ambito di una migliore organizzazione sociale e del rispetto dell’ambiente, ma non può sfuggire a quei meccanismi di cui parlavi, l’opera d’arte purtroppo ne fa parte, essendo oggetto di mercato.

Quali sono gli artisti del passato che maggiormente vi hanno influenzato o che sentite più vicini per sensibilità?
Se ti dicessimo che nessun artista abbia influenzato la nostra ricerca saremmo dei bugiardi. Non c’è nessun artista che abbiamo seguito con un certo interesse, ma visitando tanti musei, tante mostre e osservando tanti lavori, sicuramente ci saranno stati degli spunti. Gli artisti che sentiamo vicini? Sono quelli che privilegiano la scultura contemporanea nonostante l’utilizzo di materiali tradizionali.

Parlate di contemporaneo, eppure rispetto al circuito dominante degli artisti attualmente più trendy, voi raccontate un mondo povero, fatto di piccole cose e gesti invisbili. Quella che rappresentate è una realtà antitetica a quella glamour e patinata che ricorre in tanta arte contemporanea. Che cosa vi spinge in tale direzione?
Nell’arte bisogna raccontare quello che si conosce e che ti è più vicino. Sin dall’inizio il nostro sguardo, il nostro interesse è rivolto a quello che succede intorno a noi. Abbiamo tirato fuori un lavoro che non appartiene ad un mondo borghese. Tipologie povere, che sono di una zona periferica, marginale e degradata. Noi viviamo e lavoriamo in Campania, il nostro studio è a due passi dalla via Appia, la strada che collegava Roma con le altre grandi civiltà del bacino del Mediterraneo. E’ stata una delle prime grandi reti di comunicazione e di scambi culturali, economici e di crescita di quelle popolazioni. Un territorio di grande vocazione agricola, artigianale e di commercio, su cui si è sovrapposto un’industrializzazione e una cementificazione selvaggia. Ora è anche la strada della grande immigrazione e del caos. Lontana dai grandi centri del capitalismo, ma vicina e funzionale al suo disumano procedere. Se fossimo vissuti a New York, Londra, Parigi o la stessa Milano forse saremmo stati influenzati dalla moda o dal mondo pubblicitario o forse ancora di più e allo stesso modo dalle periferie e dagli emarginati, chissà forse avremmo usato la fotografia ma non crediamo che sarebbe stata diversa la concezione che abbiamo della vita e di essere artisti.

In che modo il luogo in cui siete cresciuti ha influenzato il vostro modo di lavorare e la vostra visione del mondo?
Certo, essere nati nei luoghi che oggi viviamo sicuramente a influito sulla nostra ricerca. Come non si può essere sensibili alle problematiche sociali che ci toccano personalmente? Ma questo è stato solo l’inizio di un percorso creativo ed umano che non ha fine, che mette in discussione anche altre coordinate che sono fuori e dentro il tuo territorio, fuori e dentro la tua sensibilità. Essere artisti significa essere eretici, scegliere non essere scelti. Scompare il fine razionale del produrre e vengono fuori le ragioni della scelta: inventare il mondo, la vita.

Quali sono i vostri progetti futuri?
Non ci va di parlare di progetti futuri. Ci piace più parlare di “percorso”, e sicuramente continueremo la nostra ricerca artistica per renderla il più possibile nuova e comunicativa. Le mostre? A Napoli e a Bruxelles.

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