Qualcuno si sarebbe aspettato stampe in grande formato di affascinanti macchine industriali nella bella cornice del Salone degli Incamminati della Pinacoteca Nazionale di Bologna, da poco restaurato. Descrizioni suggestive dei tecnologici impianti manifatturieri prodotti dalla G.D in tutto il mondo, così come si trovano nel catalogo edito da Electa.
Invece si è scelto di lasciar spazio a quegli scatti che, più e meglio di altri, rivelano lo sguardo degli artisti, il loro stile, la cifra della loro identità. Di modo che è il mecenate a rendere grazie all’artista, e non quest’ultimo a servire il primo. Così, la prospettiva dell’esposizione si sposta dal dettaglio tecnico – sempre di grande, ma forse scontato, effetto – al più vasto campo della soggettività artistica e, a partire da questa, del racconto.
Come afferma Isabella Seragnoli, presidente della fondazione che ha finanziato il progetto, “
le fabbriche non sono solo luogo di produzione di macchine, ma sono contesti in cui una trama unisce il territorio, l’architettura, la società circostante e le persone”. Così gli artisti invitati, diciotto da tutto il mondo, hanno raccontato le atmosfere dentro e fuori gli impianti industriali delle grandi aziende manifatturiere: sguardi stranianti sulla quotidianità della vita produttiva della fabbrica.
Per ciò, l’obiettivo degli artisti si è così spesso soffermato sulle architetture, simbolo del rapporto tra la funzione produttiva e il territorio. Solo
Anthony Goicolea sembra esser rimasto folgorato dall’importanza estetica del macchinario in sé.
Da un lato troviamo il lavoro di
Gabriele Basilico, di
Tobias Zielony, del brasiliano
Caio Reisewitz e degli austriaci
Bitter & Weber, che hanno scelto di raccontare gli edifici e i capannoni industriali nella loro purezza architettonica e nella loro spoglia, inumana essenzialità.
Dall’altro lato, artisti come
Ghada Amer,
Gueorgui Pinkhassov,
Kan Xuan e
Naoya Hatakeyama, sviluppando l’aspetto lirico, hanno ingentilito la natura asettica e meccanica degli impianti di produzione grazie all’eleganza dell’inquadratura e alla sapiente composizione dei colori. O anche, come avviene nelle foto di
Dayanita Singh, nascondendo gli impianti tra le ombre della notte nella foresta indiana.
Lo spettatore è condotto fra i cinque continenti in un viaggio che è anche un itinerario iconografico della storia della lavorazione del tabacco, materiale prima ancora che prodotto.
Sanna Kannisto e
Jesse Marlow hanno così narrato un processo, a partire dai materiali fino ad arrivare al confezionamento, mentre
Mahendra Sinh ha saputo cogliere il lavoro attento dell’uomo sulle macchine.
Immagini descrittive, dunque, ma non solo. Gli artisti coinvolti hanno anche saputo cogliere l’atmosfera e rielaborarla. Attraverso simboli, come nel caso degli scatti del britannico
Olivier Richon, dove il dettaglio isolato si fa carico di un intero racconto. O attraverso le visioni neo-futuriste del turco
Murat Germen, dove la macchina è lavoro e movimento. O, ancora, nelle elaborazioni sottrattive e nei macro-ingrandimenti del cinese
Zhang Hui e nei close-up di
Jules Spinatsch.