La Metropolis Photogallery, negozio di design/arredamento con la passione per le mostre d’arte, è arrivata appena alla terza esposizione ed è già nota agli amanti bolognesi della fotografia. La semplice spiegazione è che ha giocato molto bene le sue carte presentando tre nomi celebri. I primi due eventi, infatti, erano dedicati a Tazio Secchiaroli e a Franco Fontana. Proprio in quest’ultima occasione ci era stato anticipato dal titolare della sede che l’artista successivo sarebbe stato con tutta probabilità un talento esordiente. Il risultato è David Byrne (1952, Dumbarton), che seppure sia un nome nuovo nell’arte, è tutto tranne che sconosciuto.
Il famoso autore e cantante dello storico gruppo pop Talking Heads, dopo aver fatto capolino nel cinema con il film True Stories, si è avvicinato all’obiettivo senza risultati eccessivamente brillanti, ma si vede ugualmente dedicate le pareti che fino a poco tempo fa ospitavano due riconosciuti maestri della fotografia.
La scelta della Metropolis è quella che ci si può aspettare da una logica commerciale più che divulgativa: una scelta basata sulla popolarità piuttosto che sul contenuto.
Lo stesso tema della mostra è la materialità: pesi di ferro e martelli chiamati oggetti sacri, bambolotti di plastica che viaggiano tra le nuvole o rimangono intatti in un incendio, banconote in tutte le salse, isole tropicali e tavoli vestiti con larghissimi calzoncini. Il tutto è disposto su pannelli luminosi che fanno brillare le foto dall’interno.
Apparenza e superficialità sono i temi che Byrne ha preso in considerazione, volendo dimostrare una teoria piuttosto azzardata: “Ogni aspetto della nostra vita si ritrova un marchio e un’etichetta attaccati”, come riporta il testo di presentazione alla mostra. La sua dimensione fotografica è infatti costituita da soli oggetti celebrati come riassuntivi di tutto il senso e il bello della vita. Nessun essere umano, nessun sentimento, solo oggetti, luce artificiale nascosta tra la foto e la parete, effetti digitali, freddezza e innaturalezza.
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