Che l’Italia sia un Paese dalla memoria corta è fin troppo evidente. Lo è per la storia, per la politica, per la cronaca di ogni giorno. Anche i disastri sono presto dimenticati, fagocitati dalla nuova emergenza di turno. Figuriamoci allora che cosa resta, nella memoria collettiva, dei “padri della patria”. Non quelli che hanno contribuito a mettere insieme i cocci (dimenticati anche loro, salvo riesumazioni estemporanee, di norma legate a retorici anniversari), ma quelli che dell’Italia hanno costruito, organizzato, salvato il patrimonio culturale, contribuendo in maniera determinante a sistemarne e consolidarne l’identità .
Uno di questi è Corrado Ricci (1858-1934), ravvennate nato pochi anni prima dell’Unità e morto in pieno Ventennio, prima -per sua fortuna- di vedere gli scempi dei bombardamenti a Pisa e a Montecassino. E prima di sapere che pure Firenze, se non fossero intervenuti alcuni valorosi tra cui Igor Markevic, Emilio Lavagnino e Giulio Carlo Argan, sarebbe diventata un cumulo di macerie, i suoi gioielli perduti per deportazione.
Ricci fu un funzionario. Un burocrate, direbbe qualcuno pensando subito a certi esempi di travet senza arte né parte che infestano i nostri musei, relegandoli in certi casi a caravanserragli di quart’ordine. Niente di più lontano dal vero. Fu un intellettuale a tutto tondo. Ma le sue imprese oggi sarebbero dimenticate se la piccola e coraggiosa Ravenna, in tre sedi -Mar, Museo Nazionale e Biblioteca Classense- non avesse pensato a rinfrescarci la memoria.
Diciamolo subito. Non si va a vedere le mostre (o almeno, non solo) per ammirare i quadri, che si conoscono bene perché già visti e rivisti altrove.
Parmigianino,
Carracci,
Cagnacci,
Rembrandt, i senesi
Lorenzetti e
Beccafumi, i paesaggisti ottocenteschi e via elencando non sono ciò che vale il viaggio. Lo scopo, semmai, è capire come e perché questa poliedrica figura di studioso, ricercatore, museologo e storico dell’arte, appartenente a quella schiera di “spiriti magni” che tanto piaceva a Dante (che a Ravenna oltretutto morì), sono ormai estinti come i mammut.
Al Mar si va a lezione di filologia. Ricci lavorò a lungo per dare un volto e una coerenza a molti musei italiani, fino a quel momento poco più che meri depositi caotici: la Nazionale di Parma (1893), gli Uffizi (1903), Brera (1898), la Carrara (1911), la stessa Accademia di Ravenna (1897).
Tutti luoghi che, grazie a lui, hanno assunto finalmente il volto di un museo “moderno”, abbandonando la vetusta fisionomia ottocentesca della quadreria borghese. Molte sono le tele che radunò e amò al punto da bloccarne la vendita oltreoceano. E, se avesse potuto, avrebbe bloccato pure i nostri paesaggi, che se anche vincolati dal 1909 grazie al testo legislativo di tutela redatto dal senatore Rava “e successive modificazioni”, oggi basta fare un giro con gli occhi aperti per vedere come sono ridotti.
Al Museo Nazionale la
Fanciulla di Anzio, ma anche i mosaici bizantini, ricordano colui che li ritrasse dall’oblio. Alla Classense, infine, c’è il Fondo Ricci, che egli donò alla sua città , che dal suo canto ha dimostrato di meritarselo. Indispensabile monumento all’uomo e all’intellettuale il catalogo Electa, che bene evidenzia come per Ricci l’arte non fu solo una passione totalizzante, ma una “cura”, nel senso latino di “preoccupazione”. Per ciò che c’era, e per ciò che avrebbe potuto, se mal gestito, non essere più.