Una delle parole più usate per descrivere della pittura di
Mario Schifano (Homs, 1934 – Roma, 1998) è
schermo: non solo per la frequenza con cui, dai primi ‘70, l’immagine televisiva ricorre nell’opera dell’artista romano. Anche quando il tubo catodico non è presente, l’immagine appare comunque filtrata, frammentata, mobile, appiattita. E sempre guardata a distanza, inavvicinabile e lontana. La pittura-schermo (e, a ben pensarci, schermo significa anche impedimento, ostacolo) registra l’inaccessibilità del reale al di là della sua apparente prossimità: proprio come accade con la televisione.
Le quattordici tele in mostra a Palazzo Pigorini, datate dal 1962 al 1995, costituiscono una velocissima retrospettiva dell’opera pittorica di Schifano. Da
Botticelli (1962), uno dei monocromi bordati e sgocciolanti, quasi uno schermo a priori su cui non è stata ancora proiettata alcuna immagine, a una tela della serie dei
Paesaggi anemici, in cui il paesaggio è sbiadito, affiorante, sul punto di scomparire. Da
Programma per amore (ultimo programma), testimonianza di quell’interesse per le immagini televisive che, estrapolate dal loro flusso con la polaroid, venivano poi trasportate sulla tela, pronte per essere modificate col colore, a una serie di tele degli anni ‘80 in cui il paesaggio è ricreato, diversamente da quello “anemico”, con un colore violento e corposo.
La seconda parte della mostra, nonché quella che dà il titolo all’evento, presenta oltre duecento fotografie scattate da Schifano durante un viaggio negli Stati Uniti, effettuato nel ‘70 allo scopo di raccogliere materiale per un film che non sarà mai realizzato e che doveva chiamarsi
Human Lab, basato sulla vicenda di un clone. Schifano fotografa luoghi emblematici come il museo della Nasa, Cape Kennedy, la Bank of America di San Francisco, il Pentagono e il centro atomico di Los Alamos.
I luoghi fotografati da Schifano sono irreali, artificiali, convenzionali, tanto che non c’è contrasto tra gli spazi “veri” e le mappe, fotografate dentro il Pentagono, del Sud-Est asiatico e del secondo piano dello stesso Pentagono. Sono luoghi privi di profondità, da guardare più che da vivere: gli immensi computer della banca di San Francisco, le impalcature della Nasa o ancora le cancellate di Los Alamos saturano la superficie dell’immagine, creando pareti invalicabili. Le angolazioni di ripresa sono spesso oblique, distorte, innaturali. L’effetto d’irrealtà è aumentato dal procedimento con cui Schifano ha voluto sviluppare le foto e che conferisce loro un carattere metallico, per la precisione argenteo. Una nitidezza estrema, tagliente, quasi accecante, che a volte sconfina con l’astrazione.
Le polaroid in mostra (datate anni ’70), ultima parte della rassegna, contrastano incredibilmente con le foto americane: veloci, sgranate, ravvicinate, hanno al centro non di rado, ancora una volta, l’immagine televisiva. Come nella serie dei ritratti: tanto vicini da diventare irraggiungibili.