Young British Artists crescono. Alla sua terza mostra da Marabini,
Marcus Harvey (Leeds, 1963; vive a Londra) torna in Italia per un’occasione speciale. Inaugurare la nuova project room milanese dello spazio felsineo, dedicato a
one piece show o a raccolti corpus di opere. Nella fattispecie, Harvey ne espone due.
Non troppo lontano dai fasti esplosivi e provocatori di
Sensation, che gli valsero successi e scomuniche internazionali, ma abbastanza maturo per offrire al pubblico l’eleganza e la levigatezza di una mano e di un intelletto svelti, l’artista inglese decide di non smentire nessuno ed espone un dittico a olio su tavola da capogiro. Il raccordo tra le due immagini, se non è sottolineato da una comune architettura a cornice, è alluso dalla narrazione implicita nella rappresentazione. Protagonista è una ragazza coperta da capo a piede da burqa e tonaca entrambi neri. Non ne vediamo lo sguardo né riusciamo a distinguerne le fattezze. A malapena scorgiamo il nitore delle mani, trasfigurate dalla lastra smerigliata, plausibilmente una porta a vetri, che la separa da noi.
Tuttavia l’artista, nel titolo, c’informa che il suo intimo è di colore rosso. E pare che sia vero, dal momento che la nostra, con malizia, protetta dalla barriera e dalla distanza che la tutela dallo spettatore voyeur, non esita a mostrare reggiseno, slip e autoreggente, confermando le attese pronosticate da Harvey.
La posa quasi fotografica delle due figure, la specularità e la morbidezza del movimento in cinemascope, l’accorgimento narrativo con cui Harvey risolve il rapporto con la mimesi e difende il lusso di una tecnica personale, confermando la propria cifra stilistica, rivendicano il percorso di crescita di un artista che ha superato a pieno diritto gli entusiasmi e il furore inventivo giovanilistici in favore di una pittura coerente e meditata.
Parallelamente, nello spazio di Bologna, è ancora in svolgimento la personale di
Les Rogers (Red Bank, 1966; vive a New York). Meno energico e convincente del collega britannico, ma sicuramente più colto e avveduto nel confronto con la storia dell’arte, per il gruppo di opere in mostra imposta un impianto compositivo classicista, su reminescenze morandiane e dechirichiane, al punto da decidere di trasferirsi in Italia per un periodo, per lavorare, respirare, incanalare forze e atmosfere dei suoi padri spirituali.
I presupposti, tuttavia, non ingannino. La relazione con la storia è sciolta senza concessioni alla figurazione. I grandi maestri italiani si rivelano complici nella serietà con cui l’americano congegna l’intero apparato. I principi alla partenza vengono shakerati nel grande mixer dell’astrazione made in Usa. Le tavolozze, miscelate, tradiscono l’austerità di origine e si fanno seducenti. Strizzano l’occhio al passato, con lo sguardo rivolto al futuro. A quella
realtà spesso sognata, per citare l’artista, che a volte ama identificarsi con la vita vera.