Non molti sanno che a Carpi c’è l’unico museo della xilografia (incisione su legno) in Europa. L’iniziativa è nata negli anni ’30 per ricordare Ugo da Carpi, perfezionatore di questa tecnica, e, da qualche anno, in sordina, propone monografiche di maestri dell’incisione (Piranesi, Chagall, Dürer). Quest’anno tocca alle acqueforti di Rembrandt (la xilografia non sembra una tecnica così diffusa e quindi si ripiega spesso su una disciplina sorella). Ottanta opere (non tutte in realtà eseguite dal maestro, molte sono copie eseguite da Longhi, Masson e anonimi) che affrontano i generi più differenti: paesaggi, scene devozionali, ritratti, rappresentazioni di vita cittadina.
Quando si pensa all’incisione, solitamente, ricorrono immagini nette, fredde, bloccate in contorni rigidi. Nulla di più diverso nel caso di Rembrandt che tratta questa tecnica come se fosse un carboncino. Le ombre e gli sfondi non sono ottenuti per mezzo di compatte campiture uniformi, ma vibrano grazie al graffio disordinato di uno stilo che si slancia in tutte le direzioni, anche sovrapponendosi ai solchi precedenti. I contorni, invece, sono stati tracciati da una mano tanto sicura (il tratto è spesso, compatto) quanto rapida. Sembra di guardare le vignette che affollano le pagine di un quotidiano.
Questo però non corrisponde che a una fase della produzione di Rembrandt. Infatti, in seguito, raffinò la sua tecnica decidendo di riprendere le lastre, dopo averle immerse nell’acido, a punta secca per ottenere effetti luministici più precisi e intensi. Ecco allora Gesù guarisce gli infermi (1649) nella quale ritroviamo tutto il talento del pittore nel restituire la sua ampissima gamma luministica, con forti contrasti fra antri divorati dal buio da cui affiorano esplosioni di pura luce.
La struttura rivela una chiara influenza caravaggesca che, in taluni casi, sfocia nella citazione esplicita. Non solo nelle pose, ma soprattutto nella precisione e nel dettaglio (nel “realismo”) della descrizione. Le pieghe nel ventre di un maiale morto, le rughe di un volto di vecchia sono i risultati della spietatezza di indagine che continua anche nella resa espressiva: la melanconia del povero suonatore di violino, il dolore di un cristo circonciso, il desiderio malizioso di un ragazzo che vorrebbe scoprire cosa si nasconde sotto la gonna di una pastorella tonta.
Peccato perché le opere (tutte provenienti dal museo Correr di Venezia e da quello civico di Bassano del Grappa) non sono presentate in ordine cronologico e non viene rivelata la loro occasione (sarebbe curioso, per esempio, sapere la causa della serie di busti disposti nell’angolo).
L’allestimento risulta spoglio, con pochi pannelli esplicativi. Alzate gli occhi però, e, mantenendo questa posizione, girovagate per le quattro sale visitabili. Palazzo Pio non è niente male.
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Emanuele Lugli
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