Con la testa rovesciata all’indietro, si osserva la scritta azzurra al neon collocata in alto sulla parete, sopra un vecchio divano. La prima occhiata furtiva si perde tra i doppi significati della parola, in un via vai di pensieri e rimandi apparentemente infinito. Ed è su questo gioco di senso che si regge
Noi se (o
Noise), personale di
Gianluca Codeghini (Milano, 1968) divisa tra le sedi di Milano e Bologna della Neon. Tutto ricondurrebbe a una mostra caotica e rumorosa. Invece, ogni cosa tace e soltanto alcuni ronzii sommessi e un sibilo insistente si propagano dalla parola illuminata.
Scappa un sorriso di fronte alle foto pescate dall’album di famiglia dell’artista, che lo ritraggono mentre si azzuffa o gioca con la sorella maggiore. Accanto alle immagini, due paia di auricolari consentono di ascoltare una voce, pacata e familiare, che spiega con ordine le regole di ciascuna delle due azioni (
Il corrimano senza ritorno, 2008 e
Il riso fa sangue, 2009). Il tema non è nuovo all’interno della ricerca artistica di Codeghini. Imitazione della vita, il gioco è innanzitutto scambio e socialità. Non a caso l’artista affianca alle immagini l’ascolto delle regole, la cui esistenza determina la presenza dell’altro e, dunque, l’interazione.
Distolto lo sguardo dai ricordi, permane il gioco nell’installazione
Underconstruction: sei palloni chiusi in una rete bianca sono relegati in un angolo, mentre due palloni liberi scorrazzano per lo spazio espositivo. Allo stesso modo, al centro dell’azione mandata in loop nel video
Non lontano da qui la gente si agita e basta (2008) c’è un gioco di legno semplice e molto rumoroso. Se non fosse per la mancanza del sonoro.
Seppur ogni lavoro sia di per sé indipendente, è rintracciabile un percorso, compiuto dall’artista, entro i confini labili del suono, fino ad arrivare
Alla sorgente del rumore (1994-2005). In questa serie, Codeghini indaga la polvere con la stessa precisione lenticolare di
Gianfranco Ferroni, ma con uno scopo diverso. Come in uno dei suoi giochi, la polvere ritorna, non più lasciata depositare sulle copertine dei libri nuovi ma impressa, colta nell’attimo in cui si produce, destinata a non sparire.
Non conta la forma, soltanto la sostanza. Le stampe A4 della polvere sono volutamente scarne, imperfette. E imperfetta è la gigantografia
Il dito in bocca (2006), foto volutamente sgranata, poiché scovata nel mare d’immagini del web e poi ingrandita a dismisura.
Quando il percorso si chiude, le tracce lasciate dallo spettatore, nate dall’incontro con gli oggetti e le fotografie, rimangono stratificate nell’aria e nell’ambiente. Rimane il rumorio dei bambini, indaffarati a calciare i palloni dentro lo spazio espositivo il giorno dell’inaugurazione. E rimane quel sibilo ininterrotto che si propaga dal neon e martellante s’incunea nella testa, ricordandoci che anche il suono più distratto e ininfluente – “
una briciola perduta per strada” -, in silenzio, fa rumore.