Artista “bizzarro”
Amico Aspertini (Bologna, 1474-1552) veniva definito già dai suoi contemporanei, dai suoi stessi amici, se stiamo alla definizione con cui Giovanni Filoteo Achillini, nel 1504, ne scrive come di un pittore “
bizar più che reverso di medaglia”. Quante implicazioni di senso se pensiamo, ad esempio, che Roberto Longhi vedeva esprimersi al meglio la pittura di un
Pisanello nel “
rovescio della medaglia”, con un gioco di parole dei più azzeccati.
E l’asperità della sua pittura Amico sembra in qualche modo averla nel Dna, o almeno nel cognome, se si tengono in qualche conto le assonanze. Si potrebbe parlare anche di
genius loci, considerando come in fondo, a parte le dovute riverenze tardo quattrocentesche all’imperante classicismo peruginesco, la pittura bolognese sia sempre stata caratterizzata dalla ricerca di una propria identità stilistica, accelerando la dimensione espressiva delle varie dominanti artistiche.
Al principio del Cinquecento le mode a cui star dietro sono tante e Amico si dimostra il pittore più capace di tenerle insieme, creandosi uno stile tutto proprio, forse davvero “
pazzo”, come vien bollato fin da
Vasari, ma certo capace di rispondere alle esigenze della colta committenza della Bologna dei Bentivoglio; nutrita di un insaziabile amore per l’antichità classica a cui bisognava dar voce.
Per il resto, i capitoli più importanti della storia dell’arte
in fieri Aspertini poteva trovarli nella sua città natale, dove tra il 1500 e il 1501 giungono una pala di
Perugino (
Madonna col Bambino e santi), la cosiddetta pala Casio di Boltraffio, e il
Matrimonio mistico di santa Caterina di
Filippino Lippi: artista attraverso cui filtrare la forma troppo algida della pittura fiorentina.
Fin dalle prime prove pubbliche, Aspertini si mostra intelligente interprete delle riflessioni sulla fisiognomica e l’espressione del sentimento, che accomunano
Leonardo e
Dürer, uno dei suoi principali referenti. Basta guardare la pala detta
del Tirocinio (1504-05): la lezione di
Lorenzo Costa, suggestioni dalla pittura nordica, evocazioni dall’antichità: la grammatica di Aspertini è già svelata. Così anche negli affreschi di Santa Cecilia (1506), la “sistina bolognese”, dove Amico si confronta con i primi artisti di Bologna,
Francesco Francia e il Costa, ben rappresentati in mostra. A Lucca, nel 1508, nuove occasioni per aggiornarsi sugli esiti della pittura fiorentina.
Poi, negli anni a seguire, un’inquietudine sempre crescente assorbe i linguaggi più diversi, da
Michelangelo a
Giulio Romano. Nuovi intendimenti dello spazio e della forma non intaccano comunque l’ossatura di uno stile che esprime la realtà, al massimo grado, proprio nel momento in cui partendo da un particolare lo estrania in un mondo caricato al fino al grottesco.
Opere come la
Pietà del 1519 o le ante d’organo di San Petronio dimostrano l’incredibile capacità di Aspertini di saper fondere la corporeità esibita di Michelangelo e la scansione spaziale raffaellesca con le grandi tradizioni del
Vesperbild e della pittura tedesca; senza scartare nulla, da
Grünewald a
Parmigianino.