Cinque capanni per la caccia, simili a torri di guardia, si stagliano nello spazio espositivo al primo piano di Palazzo Santa Margherita. Lungo una parete,
Mark Dion (New Bedford, 1961; vive a New York e Beach Lake) ha appeso un centinaio di fotografie di epoche e provenienze differenti: ritraggono cacciatori e prede, e bambini che montano trionfanti sul cadavere di qualche animale ucciso da un colpo di fucile del padre. Alcuni stemmi in feltro di sapore medievale campeggiano intorno alle cinque abitazioni mimetiche, accuratamente arredate a seconda della personalità dell’occupante.
Dal lampadario di cristallo di
The Dandy Rococo ai mozziconi di sigaretta che cospargono il pavimento di
The Slot, dalla tavola apparecchiata ordinatamente di
The Glutton agli scaffali ricolmi di libri di
The Librarian, ognuna delle costruzioni create dall’artista americano rivela un differente atteggiamento dell’uomo verso la natura, la sua conoscenza e il suo utilizzo. La caccia diventa così un’attività per benestanti, per appassionati tiratori o per ricercatori solitari. Non sembra esserci un profilo-tipo del cacciatore a cui riferirsi; esiste solo un rapporto culturale sfumato tra uomo e natura, e l’infinita possibilità di trasformazione che il mondo opera sugli esseri che la abitano.
Allontanando dalla sua origine la più antica pratica di sopravvivenza, Dion riporta la caccia sulla superficie dell’intrattenimento contemporaneo, dove conoscenza e osservazione si mescolano indissolubilmente con sfruttamento ed eccesso. Come rudimentali torrette di appostamento per cecchini, i capanni permettono di osservare la natura selvaggia senza essere visti, di sparare senza diventare obiettivi. La figura del guerriero, o del soldato, si salda all’immagine del cacciatore per desiderio di conquista e sopraffazione, ma sembra anche crollare miseramente a terra con
The Ruin, trasformandosi da efficace nascondiglio in futile relitto di un’antica civiltà.
Al secondo piano della palazzina,
Gabi Dziuba (Singen, 1954; vive a Monaco) e
Christian Philip Müller (Biel, 1957; vive a Colonia e New York) presentano il secondo esperimento attraverso il quale la Galleria Civica mette in discussione le tradizionali “categorie” dell’arte contemporanea, per far rivivere l’ormai dimenticata relazione fra arte e artigianato.
L’artista/orafa tedesca offre al pubblico una ricca selezione di pezzi in oro, argento e pietre preziose (molti creati in collaborazione con artisti come
Martin Kippenberger,
Günther Forg o
Markus Oehlen). L’allestimento, curato nei dettagli da Müller, si avvale di vetrine di design ad alta tecnologia, di fotografie che richiamano stili e composizioni di grandi artisti della scena contemporanea (
Christopher Williams, ad esempio) o delle più celebri case di moda (Dolce & Gabbana).
Alcuni oggetti – bottiglie di latte, vasetti di miele, una zucca, un paio di scarpe da donna ecc. – sono stati sistemati all’interno delle teche, per riportare alla memoria di chi osserva fiabe dal sapore antico (
Cenerentola o
Land of Milk and Honey dei fratelli Grimm), mentre i gioielli, spesso appoggiati in punti nascosti e imprevedibili, sembrano creare l’effetto sorpresa, portando con sé un lieto fine da “…e vissero tutti felici e contenti”.
Con ironia e azzardo, le creazioni di Dziuba e l’allestimento di Müller generano una rete di rimandi che va dalla street culture alla letteratura, dal kitsch alla pittura olandese del Seicento, annullando qualsiasi gerarchia. E ampliando così il tradizionale concetto di oreficeria.