Quella di
Adriana Jebeleanu (Cluj-Napoca, 1975; vive a Modena)
non è una semplice mostra personale, ma un progetto espositivo lineare e
completo, che ha visto la luce dopo un anno di elaborazione e che si sviluppa
come un’unica installazione suddivisa in ventinove pezzi.
Si può a buon diritto considerare il punto di approdo di
una brava pittrice che ha trovato, con una pennellata decisa e un mood
monocromo, una sua cifra originale, un linguaggio personale plasmato sulla ricerca
della ricostruzione di un’identità che lascia spazio all’incontro tra la morte
e la vita, in un perenne e mai contraddittorio rapporto di continuitĂ tra
tenebra e luce.
Ad aprire il sipario un’opera decisamente concettuale
dedicata a
Marcel Duchamp (
Duchamp),
giocata su una scala di grigi – tonalità predominante nella sua scabra
e cupa tavolozza – e sulla reiterazione del soggetto, ritratto in una zona
d’ombra mentre si rimpicciolisce a oltranza. A seguire, sulla parete di fronte,
si susseguono una dietro l’altra scene tratte da una quotidianità enigmatica
filtrata da un cuore rumeno, intriso di timore e realismo.
La pittura plumbea di Jebe è interamente impregnata della
consapevolezza di una memoria segnata da accadimenti sconcertanti, che hanno
lasciato dietro sé rovine difficili da sublimare. Lo si vede in quei cardinali
bigi e pomposi in fila, girati verso un altrove, nei quali gli unici tocchi di
luce sono il rosa acceso della papalina e della fusciacca (
Passeggiata);
nella enorme testa di Lenin trasportata
da piccole braccia, quasi come una reliquia (
Insostenibile leggerezza); nella figura del colonnello che
osserva la sua ombra gigantesca alle spalle (
L’ombra del colonnello); oppure ancora la memoria di
un’architettura antica e contemporanea assieme (
Archeologia contemporanea), un pinocchio un po’ spaurito (
Pinocchio) o un corvo nero.
Soggetti in declino, immersi nel limbo delle tenebre
melmose del grigio, che proseguono il loro viaggio nel
cammino dell’ombra – come recita il titolo della
mostra – muovendosi silenziosamente tra presenza e assenza.
Nell’ultima sala appaiono bagliori, piccoli appunti di
teatro che riscaldano la traccia del percorso espositivo con un sipario chiuso
tinto di rosso, un’attesa di spettacolo in cui domina la finzione di una luce
artificiale che illumina una scalinata persa nell’oscurità . E se, in un altro
quadretto, rossa è la bandiera che si muove al vento inutilmente, senza più
alcun senso politico, segno di una disfatta che non incute piĂą paura, a
chiudere la riflessione rimane un altro ricordo per un grande scomparso,
Felix Gonzales Torres.
Coriandoli antracite ammucchiati in un angolo della
stanza, pari al peso corporeo della pittrice, sembrano voler indicare che con
le macerie residuali di una vita vissuta si può forse ricostruire una storia. E
assieme a un minuscolo volo di farfalle dipinte, rese con perizia anatomica e
posate sulla parete, si può ritrovare quella leggerezza mista a caducità che
permette di volare via – almeno col pensiero – come in un soffio.