È possibile ripercorrere da un punto di vista inedito le vicende che hanno segnato il passaggio dalla modernità alla contemporaneità nell’arte inglese? Pare essere questa la sfida lanciata dal Museo d’arte della città di Ravenna nell’esporre un centinaio di acquerelli realizzati tra la metà del ‘700 e i primi decenni del ‘900, provenienti dalla Williamson Art Gallery & Museum di Birkenhead.
Gli acquerelli in mostra, infatti, non si limitano a offrire una rassegna dei temi che meglio si attagliano alle caratteristiche del genere, come la divisione per categorie di soggetti potrebbe far pensare, ma permettono di indagare un momento cruciale della storia dell’arte attraverso una tecnica che, per le sue qualità, ha assunto la connotazione di strumento provvisorio, minore, più sommesso della pittura a olio, e ha dunque consentito di infondere alla rappresentazione toni “sentimentali” e accenti personali.
La narrazione inizia dalla seconda metà del Settecento, quando l’acquerello (un genere che per sua natura ben si presta alla pittura all’aria aperta) è stato considerato lo strumento più appropriato per eseguire una “mappatura” del territorio inglese (e poi per documentare il Gran Tour in Italia), finendo per fornire un fondamentale contributo alla genesi dello spirito preromantico nelle arti figurative. Da una parte esso si è infatti prestato a quei vagheggiamenti del Medioevo che hanno segnato la maturazione di uno spirito nazionale, con le rappresentazioni di resti di castelli, monasteri e abbazie (cui, come la mostra documenta, ha sorprendentemente dato il suo
contributo anche J.M. William Turner). Dall’altra si è affermato come il medium ideale per le “vedute sentimentali”, divenendo un banco di prova per le due opposte concezioni estetiche del paesaggio emerse nella seconda metà del Settecento, le poetiche del pittoresco e del sublime. La prima, teorizzata da Alexander Cozens (qui rappresentato da uno dei suoi “paesaggi a macchie”), ha avuto tra i principali esponenti quel John Constable, le cui quiete vedute (in mostra ve ne è una del territorio dell’Essex) si pongono qui in antitesi a quelle, turbinose e sconvolgenti, di Turner, di cui offre un saggio l’immaginifica rappresentazione del Vesuvio in eruzione sulle acque del golfo di Napoli.
Il gran numero di studi preparatori, disegni e schizzi presenti in mostra documenta come, parallelamente, l’acquerello abbia rappresentato per autori di dipinti convenzionali lo strumento per audaci sperimentazioni (interessanti in questo senso il Paesaggio con cavallerizzo di Thomas Gainsbourough, qui alle prese con una “pittura fantastica” lontana dai suoi celebri ritratti dell’alta società inglese) e per altri il mezzo per lasciarsi andare allo humour. E come la rapidità di esecuzione gli abbia consentito di divenire uno dei mezzi più idonei a realizzare illustrazioni per libri e riviste (qui rappresentate, tra gli altri, da disegni di Dante Gabriel Rossetti ed Edward Coley Burne-Jones).
E agli antipodi delle inquietudini romantiche, benché a nemmeno un secolo di distanza dal loro inizio, la delicatezza dei colori ad acquerello ha appagato le esigenze di purezza e controllo dei preraffaeliti, adattandosi al realismo delle nature morte di William Henry Hunt e alla delicatezza dei ritratti femminili di John Everett Millais e piegandosi alla chiusura di un ciclo storico nel segno del ritorno alla pacatezza classica.
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