La mostra Scatto e sviluppo del gesto di Piero Manai (Bologna 1951-1988), artista bolognese prematuramente scomparso, presenta intrecci sui temi fondamentali del suo complesso lavoro pittorico: il corpo (fisico e metafisico), la natura morta, le teste. Temi che nascono dall’instancabile ricerca di Manai, tesa a dare forma alle ossessioni, drammaticamente segnate al culmine dalla sua malattia.
II primo impatto è l’imponente Natura morta (1983), composizione di frutti autunnali che evoca Paul Cèzanne, e un’altra natura morta, rocciosa. Un masso geometrico svincolato da spazio e tempo, che nella fisicità della forma e dei colori appare quasi una meditazione pittorica su Giorgio Morandi. Anche in Manai si entra in un mondo di pochi colori, terrosi eppure corporali, nelle colature e nella materia. Seguono i lavori che ruotano intorno al corpo e alle sue infinite espressioni: Testa (1985), un volto distorto, allungato ed enorme -espressione di un dolore intollerabile al limite umano della sopportazione- e L’inizio della fine (1983), titolo che tratteggia tutto il percorso esistenziale di Manai, una grande carta intelata di una figura accovacciata, un corpo astenico dalle braccia mozze sospeso e perso nel vuoto. Accanto, un possente monolito oscuro, enigmatico e atemporale segna il ritorno all’origine della forma che nella sua imperturbabile assolutezza diventa quasi meditativo e calmante. Le figure come la testa, che sono scultoree nell’aspetto, si immergono –senza suolo- in grandi spazi aperti e opprimenti allo stesso tempo, un’intimità fra momenti di inquietudine e di tormento, in uno stato di precarietà psicofisica.
Poi i famosi oli su acetato, frammenti di teste e figure, torsi amputati o lacerati, di forte impatto espressivo. Analisi di smembramenti e anatomie che rivelano la battaglia solitaria e le tensioni insostenibili dell’uomo estraneo a questo mondo. Testa (1984/85), un altro grande cranio oscuro, dipinto su plexiglas, sembra sospeso nello spazio, fra angoscia e dolore, e dialoga con le polaroid della serie L’architettura della testa (1976/86), 10 autoscatti rielaborati dall’artista con interventi di pittura, che protocollano la ricerca sull’identità attraverso innumerevoli (s)mascheramenti espressivi volti a decifrare la mimica e il linguaggio del corpo.
L’artista, sperimentando diverse tecniche e supporti insoliti come acetato e bitume, analizza la fenomenologia del corpo e delle figure, l’espressione e l’affermazione corporea nello spazio. Scava nel rapporto dialettico di pieno e vuoto, di tensione e quiete, di precarietà e reincarnazione in opere che riecheggiano un’inesauribile capacità di penetrare nell’essenza dell’essere assoggettando tempo, spazio, corporeo e incorporeo, nella tensione verso l’inafferrabile.
claudia loeffelholz
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