Parlando di uno scultore non si può non scritturare la materia come protagonista. In questo caso abbiamo davanti l’acciaio e la carta. L’acciaio in imponenti sculture. La carta in finti-dipinti. In particolare, bisognerà notare come la pesantezza intrinseca nel primo elemento e la leggerezza propria del secondo giochino in modo da scambiarsi di posto.
Nella sala d’ingresso troviamo la scultura di un libro smembrato e dislocato per la stanza. Guardando con un occhio “obiettivo” la scena, si vedrebbero delle lastre di ferro verticali, corrose dagli acidi usati per il raffreddamento. Apparentemente, una scena all’ordine del giorno in qualunque fonderia. Ma l’opera straordinaria di
Giuseppe Spagnulo (Grottaglie, 1936) sta appunto nel fatto di nascondere questa obiettività in un modo degno del migliore degli illusionisti. Già dal primo passo in galleria, quello che vediamo non è la materialità delle lastre, ma le pagine disperse di un libro aperto e mutilato dal vento, sparpagliate per tutta la sala, in soluzioni di appoggio che sembrano transitorie e destinate a mutarsi al prossimo spostamento d’aria.
Un’idea di leggerezza assoluta. La leggerezza della carta, appunto.
Ritroviamo il discorso anche nella sala successiva, dove i “fogli” d’acciaio sono stati riordinati in una pila che potrebbe far venire voglia di prendere una delle lastre in mano e spostarla. Ma in realtà si tratta di ferro, e questo vuol dire che è qualcosa di duro, rigido e pesante oltre la nostra portata. A essere pesante in questa seconda tappa del percorso espositivo non è poi solo il metallo. C’è anche la carta. Si diceva come questa sia adoperata in dipinti che veri e propri dipinti in realtà non sono. Infatti, benché bidimensionali, appesi e lavorati a colpi di colore, sono ancora opera della vocazione scultorea. Cominciamo citando i materiali: sabbia vulcanica e ossido di ferro. Il colore è così pastoso che è quasi più spesso della superficie d’appoggio e l’opera tutta intera ha un peso che, a colpo d’occhio, avremmo certamente sottostimato. La carta, quindi, tra l’altro ripiegata su stessa diverse volte, si appropria di quell’elemento di pesantezza che al ferro era stato strappato poco prima con un’illusione.
Insistiamo su questo termine, “illusione”, per passare all’ultima parte della mostra, quella che è stata presentata come la vera e propria novità della personale. L’opera della terza sala ha come titolo
Le mie rose, evocativo di sensazioni lievi e morbide. Invece, anche qui troviamo l’acciaio. Precisamente cerchi in metallo, in cui un atto violento, una forte martellata a temperature elevate, ha creato un accasciamento su se stessi, facendoli diventare curve irregolari abbattute al suolo.
Il gallerista parla di “
tradimento del peso specifico”. E si potrebbe anche parlare di tradimento degli atti. Dal fuoco, dall’incandescente, dall’atto di forza, dal lavoro sporco della fonderia, può nascere morbidezza, eleganza. E una dimensione di sensazioni soffici e avvolgenti.