Si potrebbe intuire che siano le sue origini regionali a legarlo attraverso i secoli a quel “naturalismo lombardo” tradizionalmente diventato etichetta, unite al contemporaneo “spirito del tempo” – il quale fa parlare la curatrice di sensazioni da videogame, da film di fantascienza – che spingono la ricerca di
Pierpaolo Curti (Lodi, 1972) verso ipotetiche modalità di coesistenza e fusione fra “building” artificiali e vegetali.
Si caratterizza però prima di tutto come personale e introspettivo il lavoro di meditazione sulle forme, nella loro purezza, che lo ha impegnato per alcuni anni. Un ampio numero di opere che riguardano questo approfondimento è riunito in una personale che dimostra in primo luogo la linearità meditativa e quasi sacrale con la quale il tema viene sviluppato nel tempo. Il cambiamento risulta quasi impercettibile, poiché il concetto complessivo rimane invariato. Tuttavia, attraverso la cronologia dell’elaborazione ci si accorge che il lavoro di Curti potrebbe esser inteso come un percorso verso un lento perfezionamento delle linee. Che, insieme alla superficie pittorica, divengono sempre più nitide e affilate.
Al piano interrato, significativi esempi di tecnica mista presentano il pittore “prima maniera”: le forme risultano costruite attraverso incursioni nel materico, le resine movimentano le superfici rocciose, lastre in lega compongono la traiettoria di una strada, fili metallici fuoriescono dalla tela come escrescenze di architetture dipinte.
Al variare delle modalità pittoriche non corrisponde un cambiamento nell’impegno a rendere concreta la costruzione di un mondo nuovo, caratterizzato da un silenzio senza orpelli, dove l’assenza sembra essere il momento appena successivo al suo contrario. Unica presenza antropomorfa rimasta, messa ad accogliere il visitatore nella sala d’ingresso alla galleria, è infatti la “morte” che, confondendosi fra i tronchi filiformi degli alberi, costituiti dalla sua stessa materia, si aggira con la sua caratterizzante falce in una desolazione che la venera.
The triumph of death, recita il titolo.
La modalità di espressione più utilizzata si fonda sul contrasto, bianco brillante delle strutture cubiche versus tinta sporca e pesante di conformazioni geologiche, perfezione rinascimentale delle fughe prospettiche versus instabilità astratta e informale degli elementi naturali, presenza dell’artificiale nelle sue forme tecnologiche versus inquietante assenza di qualsiasi figura umana.
In un momento in cui risulta sempre più difficile accostarsi in maniera convincente alla tecnica pittorica, Curti sembra riuscire ancora, attraverso l’immensa capacità iconica ed evocativa del genere-quadro, a insinuare nello spettatore lo spiazzamento della visione inedita. Restituendo opere in cui tradizione antica e lezione novecentesca sembrano appianare le divergenze e riunirsi in un’unica categoria artistica.
Se c’è stata distruzione e ora la sensazione è quella di vuoto, occorre auspicare una rinascita, una ricostruzione dal grado zero, per un reale cambiamento. Piccoli accenni di speranza li ritroviamo, pacificatori, nell’uccello guardingo di
Red Cubes. E ai più ottimisti è permesso immaginare che l’intensa luce bianca che fuoriesce da
Light door possa essere il germoglio, divino più che umano, di una nuova esistenza.