Attraverso nuance blu notte e sferzate di rosso rubino, le opere di
Franco Rognoni (Milano, 1913-1999) s’impongono sulle pareti della Galleria Stefano Forni come una cronaca onirica agli occhi dello spettatore. Provenienti per lo più dalla collezione privata della moglie dell’artista, testimoniano quanto Rognoni sia rimasto per tutta la vita legato alla realtà milanese e rendono noti i suoi insoliti paesaggi notturni.
Volti senza tempo popolano questi dipinti: oli su tela, ma anche disegni su carta. “
Io sono un pittore e, come tutti i pittori degni di questo nome, disegno e incido”, spiegava in un’intervista a Renzo Modesti. Infatti Rognoni incide, seguendo una personalissima declinazione di questo verbo, non dimenticando che del pennello è possibile utilizzare anche il manico, solo apparentemente incapace di dar vita al volto di un uomo (
Notte). Ma questa è la sua umanità: deformata, allucinata, ridotta all’essenziale attraverso qualche tratteggio che crea un solco sulla tela, utilizzando la pastosità di quei colori che per natura tardano ad asciugarsi.
Rognoni amava la folla, l’odore della strada, l’euforia di un bicchiere di vino, la bellezza prorompente di un corpo di donna che si palesa in una
Sera Azzurra. Come nelle melodie di Ravel o Debussy, le forme danzano sulla tela, guidate da una mano influenzata da
Sironi e
De Pisis, ma ancor più dall’Espressionismo tedesco di
Grosz, all’insegna di quel turbinio di gente comune e volgari uomini d’affari che simulano rispettabilità, nascondendo il volto sotto una bombetta.
Esasperando l’emotività nella resa pittorica, Rognoni esprimeva la propria coscienza artistica, un personale sentire che si palesa attraverso colori diffusi sulla tela, al di là degli argini del disegno. La città intanto diviene sempre più straniante: i più svariati personaggi si accalcano perdendo la propria identità (
Folla), per divenire però imperituri sulla tela, quasi uno specchio della memoria dell’artista, una traccia del suo testamento pittorico.
Rognoni utilizzava la propria arte per raccontarsi e raccontare la cronaca personalissima del grido notturno di una metropoli, affastellata di edifici ingombranti, ma la cui voce scaturisce dalle persone che la vivevano e che intrecciavano indissolubilmente la propria vita con quella del pittore. Magari l’incontro è durato un attimo, un istante, ma quel momento è ancora lì a parlarci di loro.
E nella bruciante esplosione del
Tramonto Rosso, un piccolo uomo appoggiato al suo bastone passa indisturbato attraverso i palazzi e le strade, mentre le armonie dei
Menestrelli accompagnano il calar della notte.