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24
aprile 2009
fino al 3.V.2009 John F. Simon Jr. Reggio Emilia, Collezione Maramotti
bologna
I “quadri elettronici” di John F. Simon sbarcano in Italia. In una mostra che riunisce i suoi lavori acquisiti dalla Collezione Maramotti. Ma il rapporto tra software e hardware è ancora irrisolto...
Fra tutte le correnti dello sfaccettato universo delle arti tecnologiche, la Software Art è la più interessante. La ragione di questo primato sta da una parte nella capacità di confrontarsi criticamente con il linguaggio informatico – il più pregno d’implicazioni socio-culturali fra tutti i linguaggi contemporanei – e dall’altra nella molteplicità di approcci e stili che esprime.
Esiste infatti una Software Art che si pone in linea ereditaria diretta con l’Arte Concettuale, individuando nel codice – a rigore, una serie di istruzioni – la possibilità di dar seguito all’indagine sull’immaterialità e la processualità; ma anche una Software Art che abbraccia la sovversione e il détournement, attraverso la produzione di codice anarchico e schizofrenico. Esiste infine una Software Art di tipo formalista, che esalta le possibilità grafiche, metamorfiche e combinatorie della programmazione.
La ricerca di John F. Simon Jr. (Louisiana, 1963; vive a New York) si colloca in questo terzo filone, portando avanti, da oltre un decennio, una riflessione sulle capacità generative del codice informatico che fa riferimento agli stilemi dell’Astrattismo novecentesco (da Kandinskij a Mondrian, da Moholy-Nagy ad Albers).
La personale dell’artista in corso a Reggio Emilia, che ha il merito di aver portato in una sede di rilievo nostrana un tipo di arte contemporanea mal compreso e snobbato dal sistema, si propone di raccontare Dieci anni di Software Art. Se sulla carta l’iniziativa ha suscitato entusiasmo tra i seguaci del genere, sul campo si rivela debole. Non solo perché i lavori sono numericamente insufficienti per un obiettivo tanto altisonante (si è scelto di esporre soltanto le cinque opere di Simon di proprietà della Collezione Maramotti, una delle quali commissionata per l’occasione), ma soprattutto perché da questo campione non emerge, se non agli occhi di chi conosce bene la storia dell’artista, la parte più interessante della sua ricerca, che rimane il lavoro sul codice.
La componente oggettuale dei lavori esposti, infatti, soprattutto quelli più recenti (Tree, del 2007, e Visions, del 2009) prende malamente il sopravvento. L’hardware si sovrappone al software occultandolo e, al contempo, non riesce a esprimere una qualità formale propria. Il punto di fusione, reso possibile da un discorso poetico unitario che comprenda forma, contenuto e “meccanismo”, non viene raggiunto. Rimane così il sospetto che il tentativo di “dare corpo” alla Software Art sia guidato più da ragioni espositive e commerciali – la si ricolloca così nell’area semantica del quadro, seppur dinamico – che da una volontà artistica precisa.
È solo parzialmente d’aiuto il catalogo, che se valorizza il bel lavoro grafico di Simon, con la pubblicazione degli schizzi progettuali, non trova adeguato supporto critico nel testo di Mario Diacono, che non coglie la specificità della sperimentazione sul software.
E soprattutto non contestualizza la ricerca dell’artista americano all’interno di un movimento, la New Media Art, che negli ultimi vent’anni ci ha regalato, pur all’interno dell’inevitabile rumore di fondo, numerosi episodi di eccellenza, ricordandoci il significato di una parola desueta come “avanguardia”.
Esiste infatti una Software Art che si pone in linea ereditaria diretta con l’Arte Concettuale, individuando nel codice – a rigore, una serie di istruzioni – la possibilità di dar seguito all’indagine sull’immaterialità e la processualità; ma anche una Software Art che abbraccia la sovversione e il détournement, attraverso la produzione di codice anarchico e schizofrenico. Esiste infine una Software Art di tipo formalista, che esalta le possibilità grafiche, metamorfiche e combinatorie della programmazione.
La ricerca di John F. Simon Jr. (Louisiana, 1963; vive a New York) si colloca in questo terzo filone, portando avanti, da oltre un decennio, una riflessione sulle capacità generative del codice informatico che fa riferimento agli stilemi dell’Astrattismo novecentesco (da Kandinskij a Mondrian, da Moholy-Nagy ad Albers).
La personale dell’artista in corso a Reggio Emilia, che ha il merito di aver portato in una sede di rilievo nostrana un tipo di arte contemporanea mal compreso e snobbato dal sistema, si propone di raccontare Dieci anni di Software Art. Se sulla carta l’iniziativa ha suscitato entusiasmo tra i seguaci del genere, sul campo si rivela debole. Non solo perché i lavori sono numericamente insufficienti per un obiettivo tanto altisonante (si è scelto di esporre soltanto le cinque opere di Simon di proprietà della Collezione Maramotti, una delle quali commissionata per l’occasione), ma soprattutto perché da questo campione non emerge, se non agli occhi di chi conosce bene la storia dell’artista, la parte più interessante della sua ricerca, che rimane il lavoro sul codice.
La componente oggettuale dei lavori esposti, infatti, soprattutto quelli più recenti (Tree, del 2007, e Visions, del 2009) prende malamente il sopravvento. L’hardware si sovrappone al software occultandolo e, al contempo, non riesce a esprimere una qualità formale propria. Il punto di fusione, reso possibile da un discorso poetico unitario che comprenda forma, contenuto e “meccanismo”, non viene raggiunto. Rimane così il sospetto che il tentativo di “dare corpo” alla Software Art sia guidato più da ragioni espositive e commerciali – la si ricolloca così nell’area semantica del quadro, seppur dinamico – che da una volontà artistica precisa.
È solo parzialmente d’aiuto il catalogo, che se valorizza il bel lavoro grafico di Simon, con la pubblicazione degli schizzi progettuali, non trova adeguato supporto critico nel testo di Mario Diacono, che non coglie la specificità della sperimentazione sul software.
E soprattutto non contestualizza la ricerca dell’artista americano all’interno di un movimento, la New Media Art, che negli ultimi vent’anni ci ha regalato, pur all’interno dell’inevitabile rumore di fondo, numerosi episodi di eccellenza, ricordandoci il significato di una parola desueta come “avanguardia”.
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John F. Simon, Jr. – Outside in. Ten years of Software Art
Collezione Maramotti – Max Mara
Via Fratelli Cervi, 66 – 42100 Reggio Emilia
Orario: giovedì e venerdì ore 14,30- 18,30, sabato e domenica ore 9,30-12,30 e 15–18
Ingresso libero
Catalogo Gli Ori
Info: tel. +39 0522382484; fax +39 0522934479; info@collezionemaramotti.org; www.collezionemaramotti.org
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