È una mostra che mette a confronto modi diversi di fare pittura, quella che vede in primo piano Francisco de Goya y Lucientes (Fuendetodos, 1746 – Bordeaux 1828), interprete del cambiamento di un’epoca e discepolo di Don Jose Luzan a Saragozza, dal quale “imparò a dipingere di sua invenzione”. La prima sezione è dedicata al concorso indetto dall’Accademia di Belle Arti di Parma dal tema Annibale vincitore che rimira per la prima volta dalle Alpi l’Italia,al quale il pittore partecipò nel 1771 piazzandosi, con sua grande delusione, al secondo posto. Nel confronto tra il dipinto vincitore di Paolo Borroni –al tempo giovane pittore di Voghera dalla fama locale- e quello di Goya, il divario stilistico è più che evidente. Di stampo classicista l’impostazione di Borroni, originalissima e forse troppo moderna per essere capita quella di Goya. Il quadro, giudicato dalla giuria con un “maneggio facile di pennello, calda espressione del volto che vede nell’attitudine di Annibale un carattere grandioso” -una menzione senza dubbio lusinghiera- si distingue per la brillantezza della gamma cromatica e l’attenzione alla psicologia del personaggio.
La seconda sezione introduce il rapporto di Goya con la Roma europea, grazie ad un taccuino ritrovato (Cuaderno italiano) che contribuisce a far luce sul suo soggiorno artistico nella Penisola. Il centro focale d’incontro a Roma era la chiesa della Santissima Trinità degli Spagnoli in via Condotti ( la “cultura di via Condotti“ come indicata in uno scritto di Longhi), punto di riferimento di un rococò internazionale di cui protagonista su tutti era il napoletano Corrado Giaquinto. A Roma Goya conosce la ritrattistica di Pompeo Batoni, Raffaello Mengs e Marco Benefial superandola, come si osserva dai confronti delle opere in mostra, con le sue innovazioni.
Ma dove eccelle è soprattutto nel ritratto. Per questo il fulcro della mostra sta nella terza sezione, dove si nota la netta differenza tra la ritrattistica spagnola, che isola il soggetto dal contesto per concentrarsi sulla specificità dell’individuo e quella italiana, più interessata allo status. In Maria Teresa di Borbone e Vallabriga, Contessa di Cinchon, il pittore si dichiara seguace di una tradizione che parte da Las meninas di Velasquez, mentre nell’ambiguità de La famiglia dell’infante don Luis, capolavoro della collezione della Fondazione, mette insieme principi e plebei, senza alcuna distinzione di rango, trasmettendo nel volto stanco e inespressivo di don Luis angoscia e incomunicabilità, sentore di morte e premonizione di una possibile fine.
Chicca finale l’incisione, in cui Goya è maestro. Il 6 febbraio 1799 viene messo in vendita in una bottega di liquori la serie degli ottanta Caprichos, il suo lucido sforzo di rendere il pubblico consapevole delle ingiustizie perpetrate nella società spagnola. Goya apre gli occhi sui vizi con incisioni ad acquatinta di grande complessità, una grande opera a carattere etico ed educativo, che mostra le incertezze del periodo di passaggio dalle certezze illuministe al pensiero pre-romantico, tra scenografie cariche di mistero e doppi sensi.
Con ironia e mirabile capacità interpretativa, Goya incisore mette in pratica ciò che scrive nella frase che dà il titolo al pezzo più famoso della serie: “La fantasia abbandonata dalla ragione genera mostri impossibili; con essa è madre delle arti e origine delle sue meraviglie”.
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