Di fronte alle opere di Mattia Moreni (Pavia, 1920-Brisighella, Ravenna, 1999), si resta quasi imbarazzati dall’esplosione vitalistica del colore. Sembra quasi una sfida con lo spettatore, in cui l’artista sottopone chi guarda ad una violenza cromatica che un po’ impensierisce e un po’ fa sogghignare. Raramente le riproduzioni fotografiche riescono a rendere giustizia (e il catalogo della mostra non fa eccezione) all’esasperazione manierista delle tinte dove i rosa ricordano il Pontormo di Santa Felicita e gli azzurri le acque sulle quali Cabanel distende la sua Venere dell’Orsay. Tra tutti rapisce lo sguardo Ah! La bistecca del vicino…, che campeggia in un fondo che è sempre più verde, acidamente contrapposto alle nuance caldissime dei rossi sanguinolenti della carne.
Una carrellata di autoritratti che data dal 1985 al 1988 mostra la “regressione consapevole della specie” attuata da Moreni su se stesso, la quale sfocerà in un futuro robotizzato che trova massima espressione nelle tele del 1997, dove una pittura à plat, a tratti fosforescente, suggerisce la totale identificazione dell’Umanoide nel computer. Passando per altri due autoritratti del 1992, Moreni sembra non avere più parole se non una perentoria negazione (Il bambolo del NO). Assolutamente efficace uno dei tanti titoli o didascalie o annotazioni che caratterizzano il fare di Moreni –E’ più difficile non fare la bocca che farla– che accompagna l’altro autoritratto, dove un umanoide dagli occhi spiritati è come ammutolito da uno zigzagare di segni orizzontali che ne cancellano la linea delle labbra.
Un salto in uno dei periodi più fecondi e tra i più noti della produzione moreniana avviene con due delle sue angurie, una delle quali, sfatta, si liquefà, sciogliendosi su un prato come una colata di lava (Un’anguria come una morbida aggressione e come una morbida rivoluzione). E’ certamente una delle più lucide affermazioni di quella “mutazione probabile” che porterà ad assumere l’anguria come espressione dell’organo genitale femminile fino alla sterilità degenerativa del ciclo delle Atrofiche.
Ma il fulcro della mostra è lo stupefacente Mister chimica o il Narciso, calco dal vero dell’artista, centro quasi ieratico di tutta l’esposizione, in una posa “gorillesca”, come annota Claudio Spadoni, vigile col suo sguardo indagatore, ad un tempo da pazzo e da grande saggio. Il busto -che per l’occasione è stato collocato per la prima volta sul suo piedistallo, a differenza della abituale sistemazione dietro la Mistura, scultura polimaterica in esposizione permanente presso il Comune di Santa Sofia- è veramente un’apparizione di Moreni, una narcisistica e ancor più forte enfatizzazione dell’artista, dopo la già abbondante reiterazione dei suoi ritratti.
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