È il 1936 quando Walter Benjamin teorizza in
L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, la perdita dell’aura, quell’unicità che fino allora aveva contraddistinto l’opera d’arte, mentre
Marcel Duchamp due decenni prima (
Ruota di Bicicletta, 1913;
Fountain, 1917) sdoganava l’entrata di un oggetto quotidiano nel rango delle arti, grazie al solo potere demiurgico dell’artista. Ed è
Andy Warhol con la Factory, negli anni ‘60, a ridurre al minimo l’intervento emotivo e materiale dell’artista nell’atto creativo, paragonandolo a quello industriale.
Su questo crinale di pensiero si inscrive il lavoro dei due artisti americani
Wade Guyton (Hammond, Indiana, 1972) e
Kelley Walker (Columbus, Georgia, 1969). A dimostrarlo è, in prima istanza, la spersonalizzazione di quanto viene creato dalla coppia, attraverso la mancata rivendicazione del merito individuale, in favore di una definitiva consacrazione a un soggetto terzo, l’ibrido
Guyton/Walker.
A introdurre il visitatore è un corridoio, a doppio accesso, decorato con motivi tessili serigrafati;
i lati del pavimento sono movimentati dalla presenza di comuni contenitori di vernice colorati, che creano un ponte con le
unmonumental sculpture di barattoli installate all’interno. Appoggiata al muro, una serigrafia che ritrae due sedie in cerca di equilibrio (l’iconografia è degli svizzeri
Fischli & Weiss) sembra svolgere la funzione di un moderno Caronte, nell’attesa di traghettare le anime verso un universo precario.
Il percorso espositivo è tortuoso, così come la ragnatela di rimandi visivi costruita dalla coppia: i soggetti, attinti dai mass media, dalla pubblicità, dalla grafica e dalla storia dell’arte (i coltelli di Warhol, le sovrapposizioni di
Prince), sono riprodotti e reinterpretati in maniera apparentemente accidentale (in realtà, come puntuali corrispondenze), su ogni tipo di supporto: barattoli di vernice, tele serigrafate, candele di paraffina sovradimensionate. L’interscambiabilità delle tecniche, il loro spietato svelamento, l’assenza di separazione tra procedimento e risultato non fanno altro che svilire il valore dei loro contenuti, denunciando il collasso di significati generato dalla moltiplicazione visiva del mondo occidentale.
Il progetto è indubbiamente in site specific, tanto che anche il soffitto del museo è parte dell’installazione: frammenti di tele irregolari si scorgono tra le feritoie ed esotiche chanderlier (lampade fatte di noci di cocco e lampadine) si calano per vivacizzare l’illuminazione. Se si osservano però i precedenti allestimenti alla Greene Naftali Gallery di New York (
The Failever of Judgment III, 2005) e al Carpenter Center for the Visual Arts di Harvard (
Empire Strikes Back, 2006), risulta impossibile non notare la volontà di ripetere continuamente un medesimo format.
È proprio in questa reiterazione che si legge lo sforzo interpretativo, la volontà di scovare quella differenza in grado di restituire significato a ogni rappresentazione.