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19
febbraio 2008
fino al 30.III.2008 Runa Islam & Tobias Putrih Modena, Galleria Civica
bologna
Cinema perduto e ritrovato, nei suoi meccanismi più elementari, nei suoi aspetti più semplici. E perché no, poetici. Laddove Runa Islam decostruisce la visione, Tobias Putrih cerca di restituirne il piacere. Facendoci riflettere su questa operazione...
La mostra della Galleria Civica costringe a un primo sforzo già all’atto della sua definizione. Doppia personale? Collettiva? Di fatto, benché i due artisti non si conoscessero prima, i lavori di Runa Islam e Tobias Putrih paiono essere complementari ed entrare in un fecondo dialogo. Runa Islam (Dacca 1970; vive a Londra), infatti, propone alcuni video e lightbox che attivano, come la gran parte dei suoi lavori, una riflessione sul cinema. Tobias Putrih (Kranj, 1972; vive a New York), dal canto suo, realizza, e ha realizzato per questa mostra, sperimentazioni sull’idea di sala cinematografica.
Islam si inserisce in parte in quel filone di ricerca del video che decostruisce i meccanismi del cinema per svelarli al pubblico e metterne a nudo la finzione; filone che ha tra i protagonisti videoartisti quali Stan Douglas, Steve McQueen e Pierre Huyghe. L’artista si concentra qui soprattutto sulla genesi del carattere filmico, decostruendo la magia dell’illusione e scomponendola nei suoi elementi fondamentali. In What is a though experiment, anyhow (2005-06), ad esempio, lo schermo è invaso da palloncini colorati e la rottura dell’illusione è rappresentata dal loro scoppiare, a causa di uno spillo, per liberare talco o farina. In The restless object (2008), Islam filma la rotazione di un pannello a forma di gabbia su cui sono dipinti da un lato un uccellino, dall’altro il profilo e le sbarre della gabbia. Il gioco è chiaro. La rotazione dà l’illusione di un volatile in gabbia, ma i movimenti della camera possono collaborare all’inganno oppure celare il gioco.
Ancora, le 620 diapositive retroilluminate di Refuse (1996) propongono la fotografia di un medesimo albero nel corso di un intero anno. L’immondizia che viene depositata alla base del tronco e le auto parcheggiate dietro di esso permettono di leggere la storia degli abitanti della zona, di tirare le fila dei loro movimenti e dei loro pasti, dei nuovi acquisti e dei loro cambiamenti di abitudini con il mutare delle stagioni. Se non osservate in una prospettiva diacronica, però, le diapositive non sono che il meccanico documento di ciò che l’artista ha visto dalla finestra di casa sua per un anno, o materiale per denunciare vicini poco rispettosi delle norme di convivenza civile. La narrazione c’è solamente per chi ha la volontà di leggerla.
Putrih, con i suoi teatri realizzati con materiali poveri, fa buon gioco a quest’opera di decostruzione. L’artista propone rudimentali spazi per la visione di film, costruiti con cartone, truciolato e tubi innocenti. Questi, con le loro forme particolari, avvolgenti e ridondanti, si contrappongono da un lato al classico spazio museale del black box, rendendolo in tal modo evidente. Dall’altro, con la loro particolare matericità, anziché scomparire affermano il ruolo dello spazio nella visione cinematografica.
Il black box, la camera nera in cui in genere si osservano i video, è infatti uno spazio per la visione scomodo ed essenziale, in genere privo di sedie, finalizzato a creare un netto contrasto tra l’esperienza di godere dell’immersione al cinema e quella, più intellettuale, della visione di opere video in un museo. Il gesto dell’artista sloveno nei confronti del lost cinema è dunque quello della ricerca di un suo recupero. Operazione in sintonia con quella di Islam: un ritorno alle sue origini, alla luce di una nuova consapevolezza.
Islam si inserisce in parte in quel filone di ricerca del video che decostruisce i meccanismi del cinema per svelarli al pubblico e metterne a nudo la finzione; filone che ha tra i protagonisti videoartisti quali Stan Douglas, Steve McQueen e Pierre Huyghe. L’artista si concentra qui soprattutto sulla genesi del carattere filmico, decostruendo la magia dell’illusione e scomponendola nei suoi elementi fondamentali. In What is a though experiment, anyhow (2005-06), ad esempio, lo schermo è invaso da palloncini colorati e la rottura dell’illusione è rappresentata dal loro scoppiare, a causa di uno spillo, per liberare talco o farina. In The restless object (2008), Islam filma la rotazione di un pannello a forma di gabbia su cui sono dipinti da un lato un uccellino, dall’altro il profilo e le sbarre della gabbia. Il gioco è chiaro. La rotazione dà l’illusione di un volatile in gabbia, ma i movimenti della camera possono collaborare all’inganno oppure celare il gioco.
Ancora, le 620 diapositive retroilluminate di Refuse (1996) propongono la fotografia di un medesimo albero nel corso di un intero anno. L’immondizia che viene depositata alla base del tronco e le auto parcheggiate dietro di esso permettono di leggere la storia degli abitanti della zona, di tirare le fila dei loro movimenti e dei loro pasti, dei nuovi acquisti e dei loro cambiamenti di abitudini con il mutare delle stagioni. Se non osservate in una prospettiva diacronica, però, le diapositive non sono che il meccanico documento di ciò che l’artista ha visto dalla finestra di casa sua per un anno, o materiale per denunciare vicini poco rispettosi delle norme di convivenza civile. La narrazione c’è solamente per chi ha la volontà di leggerla.
Putrih, con i suoi teatri realizzati con materiali poveri, fa buon gioco a quest’opera di decostruzione. L’artista propone rudimentali spazi per la visione di film, costruiti con cartone, truciolato e tubi innocenti. Questi, con le loro forme particolari, avvolgenti e ridondanti, si contrappongono da un lato al classico spazio museale del black box, rendendolo in tal modo evidente. Dall’altro, con la loro particolare matericità, anziché scomparire affermano il ruolo dello spazio nella visione cinematografica.
Il black box, la camera nera in cui in genere si osservano i video, è infatti uno spazio per la visione scomodo ed essenziale, in genere privo di sedie, finalizzato a creare un netto contrasto tra l’esperienza di godere dell’immersione al cinema e quella, più intellettuale, della visione di opere video in un museo. Il gesto dell’artista sloveno nei confronti del lost cinema è dunque quello della ricerca di un suo recupero. Operazione in sintonia con quella di Islam: un ritorno alle sue origini, alla luce di una nuova consapevolezza.
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a cura di Milovan Farronato
Galleria Civica d’Arte Moderna – Palazzo Santa Margherita
Corso Canalgrande, 103 (centro storico) – 41100 Modena
Orario: da martedì a venerdì ore 10,30-13 e 15-18; sabato, domenica e festivi ore 10,30-18
Ingresso libero
Info: tel. +39 0592032911; fax +39 0592032919; galcivmo@comune.modena.it; www.comune.modena.it/galleria
[exibart]
la mostra è molto bella… non posso dire lo stesso della recensione