La mostra che
Silvia Camporesi (Forlì, 1973) presenta alla
galleria modenese si può suddividere in quattro lavori distinti ma sostenuti
dalla stessa tensione emotiva. Se le citazioni e i riferimenti sono molteplici
e diversi – dai filosofi e mistici Simone Weil e Georges Ivanovic Gurdjieff
alla disciplina del karate, vista come pratica di elevazione spirituale, passando
per il folklore e l’immancabile
Diane Arbus – appare invece chiara la
tendenza, che percorre le sue immagini, a svuotare e alleggerire mediante una
ricercata (e patinata) essenzialità formale.
La visita inizia con una
Breve storia dell’infinito, un video che, sfruttando il loop
di un’inquadratura fissa di pochi secondi, diventa una sorta di
tableau
vivant che
visualizza il fuoco perpetuo di un vulcano dell’Appennino tosco-romagnolo.
Il
breve frammento viene ripreso nel momento del passaggio dalla notte al giorno,
ponendo l’accento sul contrasto fra il cambiamento del paesaggio circostante e
l’invariabilità del fuoco, che appare così come un elemento autonomo e
incondizionato.
La luna piena è una cosa perfetta che già il giorno
dopo non si rivedrà più è invece un’installazione fotografica, composta da venti scatti,
ordinati sulla parete in una griglia regolare. Il titolo sottolinea la caducità
della vita ed è estratto da un testo dei
Quaderni di Simone Weil, qui in parte
modificato a indicare la sua declinazione per immagini. Tale operazione,
infatti, viene realizzata attraverso gli scatti fotografici, ognuno
corrispondente a un diverso frammento del testo della filosofa francese. Il
rapporto tra paesaggio circostante e soggetto, una delle chiavi di lettura
dell’intera mostra, viene esplorato con varie modalità, ricorrendo a simboli e
metafore all’interno di vedute dai toni pacati e surreali.
Di formato maggiore sono le stampe lambda che
costituiscono la serie di cinque ritratti, in cui l’artista interpreta
altrettante figure femminili, dove l’interesse verso donne “irregolari” mescola
la citazione al folklore e all’antropologia. Le composizioni comprendono pochi
elementi studiati e necessari all’ambientazione, mentre gli sfondi sono
uniformi e nelle scene, dove dominano i bianchi, le figure umane appaiono
isolate e senza espressione. Vera e propria costante, comune a tutte le opere
in galleria, è infatti la tensione dell’artista verso il vuoto e il silenzio,
un alleggerimento meditativo che ben si presta a un paragone eccellente con
Yves
Klein, la cui
poetica, all’apparenza molto diversa e distante, si muove sulla stessa linea
espressiva.
Dimostra coerenza anche l’ultimo lavoro della mostra, un
video ispirato alla teoria del
Secondo vento di Gurdjieff, dove la campionessa
europea di karate Shaira Taha viene ripresa, mentre esegue un kata, prigioniera
in una cella.
Dettagli e allargamenti di campo si alternano
distribuendosi tra la figura umana e la perlustrazione del bianco delle pareti,
a tratti solo leggermente scalfito da tracce di graffiti, mentre echeggia una
delicata melodia vocale a fare da armonico sottofondo sonoro.