Tremendo e poetico insieme è Leoncillo (Spoleto, 1915 – Roma, 1968), il maestro che più di ogni altro in Italia ha saputo dare voce e forma all’insopprimibile urlo dell’esistenza. Lo ha fatto con la terracotta, per via di aggiungere dunque, ma anche per via di levare quando la necessità espressiva lo imponeva. Artista profondo e straordinariamente complesso, è stato sensibile testimone del sentire di un’intera epoca, problematica quanto proficua, specie sul versante artistico, tra il secondo conflitto mondiale e le agitazioni del ‘68, tra neocubismo ed informale, spinte popular ed espressionismo esistenziale. Leoncillo concepisce l’arte come gesto sublimato nella materia. Le sue sculture, simili a carni arse e corrugate, rivelano il terribile vibrare della materia sotto i colpi impietosi ed energici di un creatore; sono gli specchi implacabili della crudezza del vivere. Osservarle significa soffrire i patemi di ogni individuo, di un’umanità che nostro malgrado ci coinvolge tutti.
Una piccola ma suggestiva rassegna allestita nella Galleria d’Arte Maggiore di Bologna, in pieno centro storico, a pochi passi da San Petronio, rende omaggio al genio umbro, silenzioso e discreto, annunciando traguardi futuri, primo fra tutti la realizzazione del catalogo ragionato. La mostra racchiude, per tappe fondamentali e con alcune capitali, il decennio più importante della carriera dell’artista, quello compreso tra il 1955 e il 1965, stilisticamente racchiuso tra il bozzetto del Monumento ai Caduti di Albisola, in cui l’invetriatura e il colore riflettono ancora l’interesse dell’artista per la forma compiuta e la narrazione, e la grande scultura Amanti antichi, tragica trasposizione del sarcofago degli sposi etrusco ma anche veemente risposta alle suadenti figure distese di Henry Moore.
Leoncillo, vista della mostra, Galleria d’Arte Maggiore
Un indiscusso capolavoro, recentemente esposto alla mostra “Intution” a Palazzo Fortuny a Venezia, in occasione dell’ultima edizione della Biennale, che la mostra bolognese presenta come indiscusso protagonista, pressoché isolato al centro della stanza principale, splendidamente illuminato da una luce radente che ne accentua i chiaroscuri determinati dalle continue sporgenze e rientranze, simili a ferite, a rughe sulla pelle. Dietro il topos iconografico antico si cela una riflessione sulle innumerevoli difficoltà della vita, che proprio nell’incontro tra i due amanti ha origine. Felicità coniugale e beatitudine celeste dell’originale si perdono nel grido sordo della materia, nelle sue molteplici asperità. Una scultura archetipica che attrae e respinge, dalla cui contorta stereometria sembra levarsi la voce dell’autore: “La creta è come carne mia… Creta, creta mia, materia mia artificiale ma carica per metafora di tutto ciò che ho visto, amato, di ciò a cui sono stato vicino, creta carica per metafora delle cose che ho dentro, con cui in fondo mi sono, volta per volta identificato”.
Una vera dichiarazione d’amore per un materiale duttile e affascinante, foriero di infinite possibilità espressive, tutte puntualmente sondate da Leoncillo che attraverso la creta ha saputo interrogare se stesso dando alla scultura astratta un’interpretazione assolutamente originale, autenticamente informale, nel senso che la forma non esiste se non nel gesto. Lo confermano le altre sculture presenti in mostra, tutte di piccolo formato, ma non per questo meno atroci della composizione maggiore. Assumendo un prevalente andamento verticale queste sculture, riecheggiate dai sintetici disegni alle pareti, sembrano comporre un polifonico coro di tragiche figure. In esse la creta si mostra nella sua colorazione rugginosa, mentre i limitati inserti cromatici, limitati al rosso, al nero e al bianco, partecipano alla mestizia generale, non agendo più in superficie, ma “da lieviti interni” come ha felicemente notato Giovanni Carandente. Neppure la luce sembra redimere la visione, perdendosi nei meandri di superfici frastagliate e opache. In Taglio rosso del 1963, altro capolavoro in mostra, di creta contorta e crivellata, sembra di poter rileggere la storia dell’arte, dagli squarci di Fontana ai buoi macellati di Soutine e Rembrandt. E ancora, opere eccezionali come Gocce rosse del 1959 e Grande mutilazione del 1962 rivelano la propensione dell’autore alla sintesi estrema, all’antiracconto, interpretando la scultura come metafora esistenziale ma anche pura esibizione della sua materia e del suo farsi, “come un non finito, come un farsi continuo nel tempo e nello spazio, come un evento naturale” ha detto Filiberto Menna.
Carmelo Cipriani
mostra visitata il 4 febbraio
Dal 27 gennaio al 31 marzo 2018
Leoncillo
Galleria d’Arte Maggiore
Via Massimo D’Azeglio 15, 40123 Bologna
Orari: dal lunedi al sabato dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 16.00 alle 19.30.
Info: 051235843 info@maggioregam.com www.maggioregam.com