Quale luogo più stimolante per ospitare uno dei lavori sullo spazio di Flavio Favelli (Firenze 1967) di un museo dedicato all’arredo contemporaneo? Infatti l’opera dell’artista di origine toscana, che ricrea in un ambito museale spazi affettivi in cui l’arredamento esibisce soprattutto un valore di veicolo di memoria, si pone qui a confronto con gli oggetti di design della collezione permanente, che, dando corpo allo spirito del loro tempo ed evidenziando come il concetto di funzionalità sia labile e soggetto al variare dei modelli estetici, sono invece strumenti della memoria collettiva.
Nella lunga sala dedicata alle esposizioni temporanee, in cui le finestre e la vetrata della balaustra che dà sull’open space della permanente sono state completamente oscurate da coperture nere, sono disposti in rigorosa successione lampadari, tappeti, sedute e altri pezzi di arredamento della “collezione F. F.”, a scandire un percorso che, nella sua linearità, gioca con la pretesa alla tassonomia del museo.
Come fossero entrati in collisione con piatti, bicchieri e altri oggetti di uso comune, gli arredi danno vita a inediti oggetti ibridi, evocando usi talvolta incomprensibili e certo molto personali.
Il percorso del visitatore si snoda su tappeti composti cucendo assieme vari pezzi ed è illuminato da lampadari in cui a fungere da portalampade sono bicchieri, colli di bottiglia e cestelli portaghiaccio adattati al nuovo uso. S’incontrano, tra gli altri oggetti, un massiccio tavolo su cui i piatti non sono appoggiati, ma incassati nel legno a distanze irregolari (e che rimandano quindi a una disposizione inconsueta degli eventuali commensali). Su una panca color testa di moro è stato incastonato un fondo di bottiglia. Nel portaoggetti di un dondolo arrugginito, poi, ci sono parti di piatti, tagliati per adattarli perfettamente alle sue dimensioni e quindi inservibili nella loro funzione abituale. E l’espositore da supermercato, ironicamente intitolato arredo n.4 (bacheca Collezione F. F.), su cui sono esposti gli oggetti utilizzati per comporre i pezzi di arredamento, non vale in realtà a svelarne il senso.
Per sottolineare l’aura sentimentale che promana dagli arredi l’artista ribalta il modello di allestimento museale neutro del white cube, creando uno spazio intimo e d’atmosfera. Il senso di chiusura all’esterno ottenuto grazie alle pareti nere del museo e alla separazione dallo spazio principale sono enfatizzati dall’isolamento acustico ottenuto con la musica diffusa e con i tappeti che attutiscono il rumore dei passi. Poiché a rischiarare l’ambiente provvedono i lampadari in mostra, poi, lo spazio risulta frammentato in zone di penombra alternate ad aree in luce, una concezione di illuminazione agli antipodi dello standard museale che prevede una fonte di luce zenitale combinata all’uso di faretti orientabili.
Gli arredi di Favelli contrappongono così progetti irrazionali, usi molto singolari e la negazione della praticità alla ricerca, incentrata sulla funzionalità, che è alla base dei pezzi della collezione permanente.
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