Renato Barilli lavora da dieci anni sul progetto Officina, che si è concretizzato in una biennale avviatasi nel 1997 con Officina Italia, e che è proseguita snodandosi tra Officina Europa (1999), Officina America (2002) e, infine, l’attualmente allestita Officina Asia. La particolarità di questa biennale è quella di non indagare per sommi capi l’arte internazionale in un miscuglio poco preciso, ma di approfondire in maniera più che esauriente ristretti campi geografici. Le Officine non solo sono dedicate a un continente per volta, ma ne selezionano esclusivamente il lato più evoluto e interessante. In questa occasione vediamo così l’arte asiatica rappresentata dall’estremo oriente: Cina, Corea del Sud e Giappone. Gli artisti scelti sono 57 (25 giapponesi, 20 cinesi e 12 sudcoreani), tendenzialmente sotto i quarant’anni e suddivisi negli spazi di Bologna, Cesena e Rimini a seconda delle caratteristiche delle sedi espositive. Internamente a questa tripartizione di spazio, ce n’è una legata a un percorso cronologico e teorico che dipartisce la mostra nelle sezioni: Recording the Skin of the World (Registrare la pelle del mondo) e Changing the Skin of the World (Cambiare la pelle del mondo). La prima si riferisce soprattutto ai mezzi della fotografia e del video, al concettuale e al post-concettuale. La seconda invece è il segno più recente di una riscoperta del colore e della fantasia.
La GAM bolognese accoglie soprattutto proposte decorative, fotografia e installazioni video. Risale così attraverso una scala di tre gradini di tecnologia che per l’oriente coincidono con una salita vorticosa verso il modello occidentale, a cui i giapponesi hanno aderito per primi. Come Shinako Sato che nelle sue fotografie e in due statuette -evidentemente ispirate ai fumetti americani- parla di un mondo simile a quello delle Barbie, in cui i giovani si sentono quasi costretti a rispettare standard di vita che non trovano radici nel proprio paese. O Ujino Munetero che incentra il proprio lavoro sulle parole occidentali incontrate in Giappone, realizzandone giganti modelli tridimensionali. Ririko Muriyama gioca sul concetto di apparenza rivestendo manichini di corpetti femminili costruiti con fiori finti, bigiotteria di tutti i tipi e merletti. Hideiro Watanabe celebra il progresso architettonico del Giappone attraverso foto che ne riprendono i grattacieli, ma visti con il distacco di un passeggero aereo che vede la città sorvolandoci sopra. Ai Yamaguchi crea, invece, una vera e propria stanza costruita tra pareti azzurre che simboleggiano il cielo, dove eterei personaggi dal corpo scarno e gli occhi grandi come i protagonisti di un manga si poggiano su delle sagome di nuvole. Il quadro generale della situazione del Giappone è quello di una nazione che ancora ondeggia tra progressivismo e infantilismo, voglia di imitare l’occidente e scetticismo nel rinunciare alle proprie tradizioni, confusione tra il passato e il futuro, su cosa si stia vivendo e su cosa si preferirebbe vivere. Il tema di Akira Yamaguchi esprime questo senso di incertezza facendo convivere il passato di Gengis Khan, delle guerre del Giappone contro Russia e Cina con i moderni strumenti di guerra.
La situazione cinese, molto più varia e da meno tempo aperta al resto del mondo, risulta stranamente anche più equilibrata e mirata. L’obiettivo è quello di una rapida crescita economica, tecnologica e sociale che non lascia il tempo di porsi dei dubbi e di riflettere troppo sul passato. Non per questo le tradizioni vengono abbandonate, anzi, artisti come Whang Inkie e Huang Yan, fanno della decorazione il loro punto di
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mostra visitata il 16 giugno 2004
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