-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
della mostra, l’immagine di un adulto che tiene per mano un bambino: camminano
sull’asfalto assolato, ben definite sono le ombre. Siamo in Israele, a Kiryat
Sefer, presso “La città del libro”. La didascalia spiega: “Una fortezza di
cemento in mezzo al deserto, dedicata esclusivamente alla lettura del Talmud”. Si vedono solo i segni
geometrici del parcheggio e l’uomo ha con sé una busta di plastica. La
modernità – così è ormai evidente oggi, in ogni religione monoteista – non ha
emarginato, come semplice memoria da conservare per affetto familiare,
tradizione e intima spiritualità, quanto giunge dal passato: fortissima
piuttosto è l’esigenza di definire la propria identità, singolare e plurale,
attraverso la religione, e proprio attraverso precisi costumi, gesti e
preghiere.
Nelle immagini dal mondo ebraico
di Monika Bulaj
(Varsavia, 1966; vive in provincia di Bergamo) pare di cogliere questo
sentimento di adesione alle origini ovunque nel mondo, in Polonia, in Turchia, in
Azerbaigian, oltre che naturalmente in Israele. Che pure è terra anche laica;
preferisce però Bulaj soffermarsi, con la macchina fotografica, più volentieri
su Me’a Sharim, il quartiere ortodosso di Gerusalemme, con la rigorosa obbedienza
alla Legge e con tutti, anche le donne e i bambini, con i segni dell’appartenenza
negli abiti, nei capelli e cappelli.
sopravvissuto nei secoli proprio per la volontà di restare fedele a precise
modalità di comportamenti, preghiere, rituali? Indossare la kippà (la
“papalina”), il talet (il mantello che si veste durante le preghiere), i
teffilin (le strisce avvolte intorno al braccio, quasi che il corpo possa
diventare scrittura)? Osservando le foto di Monika Bulaj verrebbe da pensare
così, e bisogna leggere le didascalie per capire dove ci si trova nel mondo per
quegli scuri cappelli vicini, le letture religiose e le danze.
“Sono ebreo, ma laico”, si sente a volte dire. O anche:
“Sono laico, ma ebreo”. Una sorta di adesione necessaria, al di là dell’aspetto religioso.
Memoria di lingua e famiglia, spesso di persecuzioni che non possono essere
dimenticate: testimonianza di presenza e continuità.
Con Il viaggio di Elia sono ancora quelle kippot, quei
pe’otim (i riccioli a lato del viso degli uomini che il Levitico indica di non tagliare) a creare
unità, legami di vicinanza, pur in Paesi lontanissimi.
Reportage
da Tel Aviv
Israele
e Palestina alla Biennale di Venezia 2009
valeria ottolenghi
mostra visitata il 10 ottobre 2010
dal 5 settembre al 5 dicembre
2010
Monika Bulaj – Il viaggio di
Elia
Museo Ebraico
Via Valdonica, 1/5 (zona via
Zamboni) – 40126 Bologna
Orario: da domenica a giovedì
ore 10-18; venerdì ore 10-16
Info: tel. +39 0512911280; fax
+39 051235430; info@museoebraicobo.it;
www.museoebraicobo.it
[exibart]