Tra le novità di Arte Fiera si aggiunge quest’anno
l’apertura di una nuova galleria nel panorama bolognese. Si dà il caso che dopo
la formazione della cosiddetta Zona MAMbo e dopo l’inaugurazione della spazio
di Astuni, questa è l’ennesima conferma di un risveglio cittadino
dell’attenzione all’arte contemporanea e, chissà, magari anche del mercato.
Quelli della P420 hanno le idee chiare e lo dimostrano le
loro affermazioni. Dalle righe del primo comunicato stampa infatti trapela la
volontà di fare
“una proposta di artisti storicizzati che hanno dato vita
alle principali avanguardie del secondo dopoguerra, dall’Informale negli anni ‘50
per arrivare alle più recenti esperienze degli anni ‘70”.
Altro fattore caratterizzante,
fossilizzandosi ancora qualche momento sui dettagli, è la presenza dei libri e
dei documenti accanto alle opere, che viene dichiarata fin dalla titolazione
della galleria.
Già dalla prima prova – la mostra in corso – i presupposti
a cui si accennava sono perfettamente rispettati. Innanzitutto l’esposizione si
concentra su due figure di spicco dell’avanguardia italiana del secondo
Novecento. Se
Piero Manzoni (Soncino, Cremona, 1933 – Milano, 1963) è un protagonista indiscusso, oltre ad
avere abbondante riconoscimento internazionale, per
Dadamaino (Milano, 1935-2004) è cominciato
un più che giustificato periodo di riscoperta e di rinnovato interesse.
Introducono il percorso due opere, una su tela e una su carta (
Senza titolo e
Composizione), che fungono da premessa alla
ricerca degli artisti e che sanciscono il passaggio al clima su cui si vuole
porre l’accento.
“
È un ‘grado zero’ la cui certificazione d’esistenza al
mondo e di raison d’être, di necessità, è semplicemente trasferita alle
pratiche che il secolo ha insegnato essere non istanze di mediazione, ma di
espressione in se stesse, dal foglio a stampa alla fotografia d’apparenza
documentaria”
(dal testo in catalogo di Flaminio Gualdoni). Quel grado zero a cui tendono,
allo stesso tempo, gli
Achrome di Manzoni e i
Volumi di Dadamaino, l’uno attraverso
l’azzeramento della superficie pittorica, l’altra intervenendo drasticamente
sul materiale grezzo.
Le stanze si susseguono mantenendo estrema pulizia
allestitiva e precisi riferimenti alle parole degli stessi artisti e dei loro
maestri. “
La linea di Manzoni, la fine dell’arte” è la puntuale definizione di
Lucio
Fontana che fa da
contraltare non solo a
Linea 5,70 (1959), ma si accompagna a
Volume a moduli regolari (1960) e a un monitor nel quale
scorrono le immagini dell’artista milanese intento a produrre i
Corpi d’aria (1959).
Che la ricerca sia stata alla base di tutta l’operazione
lo confermano infine le vetrine colme di riviste, inviti, manifesti e cataloghi
originali, a testimoniare da un lato il fermento culturale e dall’altro i
rapporti costanti con il contesto italiano e straniero. Da ultimo la chicca per
bibliofili e filologi: nel catalogo si ritrovano una curata selezione di testi
critici e un’appendice dedicata alle mostre e ai cataloghi, comprensiva di
immagini di copertina.