Diretti in quattro alla Otto Gallery
di Bologna – in compagnia di un
artista e un gallerista – il dibattito verteva sulla deriva spettacolare di
molta (troppa?) arte contemporanea. Ma, notava l’artista, il
turn over del palco multimediale ha
riflessi tanto sulle arti visive quanto su quelle “razionali”, battezzate tali
dal Bauhas. L’architettura, ad esempio, sforna torri rotanti figlie di
algoritmi e di migliaia di cervelli al silicio, laddove – da Guadalajara a
Dubai – basterebbe una sola materia grigia per formulare un bartlebyano “
preferisco
di no”.
Ma che c’entra questo con
L’occhio di Narciso, personale di
Giuseppe
Maraniello (Napoli, 1945; vive a Milano)? Una volta al civico 55 di Via D’Azeglio, niente
sembra più calzante di tale premessa. Niente più distante dall’effimera
superficialità di molto “oggi” delle opere ideate appositamente per lo
spazio dall’artista partenopeo.
A partire dalla prima sala. Un bronzo monumentale aggetta
un ciclopico tronco pubico, e subito si percepisce il peso di un artista che
ascolta la voce della propria memoria, “
oltre il brusio dell’attimo”, come conferma Danilo Eccher, curatore negli anni di più d’una
rassegna dell’artista, dalla Civica di Trento alla Gam di Bologna.
Il cerbero acefalo immobilizza con
due lance un nemico biforcuto e custodisce un
sancta sanctorum ove spicca l’oro bizantino di una
tela tridimensionale – aperta ai lati a
objets trouvés – in cui si specchia uno dei tanti
Sagittari di
Maraniello. Il piccolo Giano (o centauro) bifronte porta pure lui una
sagitta
in cauda. “
Ho
trovato quest’immagine di uomo in lotta con la sua coda”, svela Maraniello, “
nel
volume ‘Il medioevo fantastico’ [di Baltrusaitis
Jurgis, N.d.R.]
e mi è parso subito una personificazione del conflitto tra
ragione e istinto”.
Ecco il mistero delle
composizioni recenti, bilanciate perché cadenzate di figure duplici, più che
ricorrenti, oramai classiche: “
Quel disordine istintivo che sembrava
lacerare e ricomporre le opere germinali”, scrive Eccher nel
volume antologico stampato per la mostra al Giardino di Boboli, “
ha dovuto
lasciar spazio a un più rigido aspetto ordinatore”.
L’artista 65enne non si
sottrae, dunque, al confronto “a viso aperto” con la classicità, innescato dal dna
partenopeo, anzi. Con la cenere di Pompei nelle vene, il Maraniello maturo
scende in agone misurato con l’antico e con lo “
strabismo e asimmetria”
– definizione di Gillo Dorfles – della nostra civiltà.
Per sciogliere i grovigli
passati e presenti, l’artista cerca un’armonia aurea tra sperimentazione e
compiacimento, plasmando una mitologia contemporanea fatta di pittura e
scultura, di idoli e oggetti quotidiani che sfidano l’ambiguità della storia.
Mosaicista certosino
nell’ultima sala della galleria, o rapido poeta di
Enneade,
scritta con Edoardo Sanguineti e pubblicata nel catalogo fiorentino, il motto è
uno: “
Questo tempo si flette, e si riflette: le sue vendette a me mi stanno
strette”.