La Galleria Civica di Modena continua, sotto la direzione di Angela Vettese, una ricognizione della realtà artistica internazionale orientata più a proporre e letteralmente, esporre, che non a celebrare e offrire definizioni e categorie. Le mostre personali attualmente in corso nelle due sedi distinte vedono protagonista una coppia artisti, Yayoi Kusama e Ugo Rondinone, apparentemente tanto lontani per modalità di espressione da apparire legati della tensione tra le loro diverse sensibilità.
Le opere di Yayoi Kusama (Matsumoto, Giappone, 1929 circa) sono coloratissime, filtrate da un immaginario pop e accomunate dalla ripetizione ossessiva dei medesimi elementi sintagmatici (pois, spermatozoi, forme organiche e cellulari). Quella dedicata a Kusama è un’esposizione antologica, con lavori dal 1952 a oggi, di un’artista che ha goduto di una vasta fama nella New York degli anni ’60, ma che da noi si ricorda soprattutto per aver partecipato a due Biennali di Venezia. Da abusiva la prima volta, nel 1966, quando fu cacciata perché vendeva le sfere specchianti che vi esponeva, e ufficialmente invitata a rappresentare il Giappone nel 1993.
I lavori in mostra, alla cui installazione ha collaborato l’artista stessa, sono disposti in modo da creare una simmetria nell’uso delle sale, che pare rivelare una volta di più la sua ossessione per il rigore. Le due sale nelle ali più esterne della palazzina sono dedicate a dipinti e opere plastiche, le due più interne alle installazioni, mentre l’alta sala voltata di ingresso ospita lavori recenti.
Tra essi l’accattivante Tenders are the straits to heaven (2004), una scala fatta di luci colorate che grazie a un gioco di specchi pare salire e scendere all’infinito, introducendo ad alcuni degli elementi chiave del lavoro dell’artista: la regolarità, la ripetizione, la proposta di un’illusoria via di fuga come rassicuranti antidoti a una realtà imprevedibile.
Kusama ha infatti reso la sua arte uno strumento terapeutico per le depressioni che la affliggono e la forma di follia che l’ha portata a scegliere di vivere in un ospedale psichiatrico. Se per sua esplicita dichiarazione, l’artista giapponese ha sempre avuto un rapporto di totale distacco dalla propria sessualità: qui impone per esempio il suo controllo sugli spermatozoi, rendendoli rossi e stilizzati elementi di un pattern grafico, o riducendo l’organo riproduttore maschile ad un innocuo salsicciotto di tessuto, anch’esso a pois. In questo esercizio, l’artista pare riprendere in parte il lavoro di quella Georgia O’Keeffe -che ammirò appassionatamente e con cui fu in contatto negli anni precedenti il suo temporaneo trasferimento negli Stati Uniti (dalla fine degli anni ’50)-, un’altra campionessa della sessualità da una parte esibita e dall’altra controllata da un’estrema depurazione delle forme.
Tutte le opere in mostra, dalle installazioni, alle sculture ai quadri, ripropongono in forme diverse l’interesse per texture quasi grafiche dal tono minimalista e optical. In particolare l’applicazione dei pois colorati fluorescenti su mobili e pareti di un salotto-studio tipicamente middle class in I’m Here but nothing (2000) pare offrire un accesso alla comprensione del suo lavoro: quasi una cura contro la standardizzazione borghese di forme e colori.
valentina ballardini
mostra visitata il 23 settembre 2006
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