Jacques Villeglé (Quimper, 1926; vive a Parigi e Saint-Malo) non ha bisogno di presentazioni. A maggior ragione in un momento in cui il Nouveau Réalisme, movimento in cui ha militato, vive una giustificata fortuna critica. E, per citare qualche manifestazione celebrativa, non è neanche necessario uscire dal territorio nazionale, vista la concomitanza con la rassegna milanese in omaggio a Pierre Restany a cura di Renato Barilli.
Il sobrio e compassato allestimento della galleria non nasconde la forza prorompente di alcune proposte e, c’era da aspettarselo, soprattutto di alcune opere datate 1960, anno più anno meno. Sono questi, infatti, gli anni in cui la poetica novorealista si attesta
A 40° au dessus de dada, come recita il titolo del saggio di Restany. Tra la fine del decennio precedente e i primissimi anni ’60, Villeglé scopre, con l’amico ed ex compagno di studi
Raymond Hains, l’attrazione per il décollage che, pur desunto dal collage cubista, si dota di caratteristiche care alle intuizioni dadaiste e surrealiste.
Anche nei pezzi più recenti esposti a Bologna è indiscutibile l’appeal estetico che il manifesto strappato ha sulla sensibilità contemporanea, in quel suo essere un concentrato di ready-made e objet trouvè. Il crogiolo d’immagini e testi a carattere pubblicitario ben si appresta a essere rappresentazione della comunicazione odierna, ma è allo stesso tempo diventato segno distintivo della ricerca artistica di Villeglé (e non solo).
Allora ecco alcuni autoritratti dell’artista in forma di
Décollage, profili scrupolosamente ritagliati, composti esclusivamente di materiale di recupero, incollato, stracciato oppure trovato così come lo si vede, proprio come accadeva agli esordi della sua carriera da nouveau réaliste. Ultima deriva del decollagismo è la Francia stessa, la cui superficie geografica è sottoposta allo stesso trattamento.
Parte del percorso espositivo è dedicata a una passione che prese Villeglé prima del suo affacciarsi alla Neoavanguardia, ma che rimane un nodo fondamentale: le
ultra-lettere. Ai primi tentativi sperimentali eseguiti con una macchina fotografica sul cui obiettivo era posto un vetro ondulato (come riportato da Cecilia Marone nel testo in catalogo) seguono addirittura contatti con
François Dufrêne, lettrista errante. Le indagini verbovisuali proseguono all’insegna della creazione di nuovi caratteri rubati dall’ambiente urbano, dei graffiti per esempio, fatto di creatività anonima.
Il fascino per la lettera-simbolo è il leit motiv di alcune opere composte con alfabeti compositi, dalle svariate ascendenze. Simboli politici, segni primitivi, lingue morte e sconosciute si mescolano, a formare un tappeto decorativo di sapore arcaico.