Il rimando alla Body Art e alle performance degli anni Sessanta balza subito alla mente dinanzi all’enorme trittico che “oscura” la sala della galleria. Ma poco a poco, nell’arte di Giovanni Manfredini (Pavullo nel Frignano, Modena, 1963), si percepisce lo stacco evidente da quel modo di operare. Il gesto che diventa forma si carica in lui di energia nuova e, seppur all’apparenza più cupa, anche più vitale. La tavola che serve da supporto, annerita col fuoco, diventa emblema del Kaos, del Thanatos, del vuoto cosmico. Vuoto che l’artista, sdraiandovisi nudo come un nuovo Adamo, cerca di scacciare. Accollandosene il peso sul proprio corpo, che si annerisce come un pegno da pagare per far emergere la luce. Nuovo Prometeo che porta agli uomini il fuoco, il dono della conoscenza, in grado di distruggere, di generare, di far riaffiorare fatui barlumi di drammatiche vicende autobiografiche dell’artista, ustionatosi quando era solo un bambino. È un profondo lirismo quello che pervade le opere di Manfredini, nelle quali vita vissuta e riflessioni di un esistenzialismo a tratti kafkiano si intrecciano a comporre forme che rimandano ad una cultura artistica impregnata di sacro, a complesse iconografie seicentesche, alla concezione luministica e realistica delle ultime opere di Caravaggio. Non è un caso infatti che in due opere di più ridotte dimensioni le sue mani calcate sul nerofumo del supporto sorreggano altrettanti libri aperti, sulle cui pagine sono riprodotti due particolari del pittore seicentesco. Uno di essi, un teschio, emblematico e stigmatizzato memento mori, ci catapulta dinanzi all’ineluttabilità del nostro destino di uomini.
Ma in questa vena di esistenzialismo pessimistico si può rintracciare una nota di serena e sincera speranza proprio in quei raggi di luce che trafiggono, scendendo a perpendicolo, quei corpi nudi. Sono corpi normali, consunti dalla vita, illuminati ed illuminanti, che paiono dover lottare con fatica per non essere risucchiati dalle tenebre. È una luce, quindi, che non è più rappresentazione di una salvezza divina, esterna, ma di un’auto-salvazione.
In quest’atmosfera, a tratti sacra, i pannelli dell’enorme trittico possono diventare allora una simbolica raffigurazione del Calvario: Gesù e ai lati i ladroni. Un unico interprete: sempre Manfredini. Sacro e profano, umano e divino, luce e ombra, vuoto e conoscenza.
Nell’ultima sala della galleria undici disegni su carta sono disposti a formare una croce. Ognuno di essi raffigura drammi anonimi di uomini qualunque, trafitti da frecce come il San Sebastiano dell’iconografia tradizionale e concretizzazioni dell’universale male di esistere. È così che Manfredini celebra e rende grazie a tutti coloro che, accomunati dallo stesso destino, portano con coraggio la propria croce. Da quando nascono fino al momento della morte. Non è necessario essere santi per essere martiri.
sara vannacci
mostra visitata il 16 dicembre 2006
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La magnifica ossessione di Manfredini!
Bravo ed intenso il lavoro.
Vorrai dire la continua noia di Manfredini! Retorico, pesante e scontato.
Il rovescio della medaglia di Coda Zabetta.
Auguri!
Non è noioso affatto, e che c'entra Coda Zabetta? Paragone tirato per i capelli.
Coda zabetta???
Spiegati!
ba... a me sembrano uguali... bianco e nero, retorici, noiosi... insomma di maniera!
Non credo slalom avesse torto...
mostra orrenda!
Secondo me manfredini non può continuare così!!
E' ormai più di un decennio che ci propina la stessa sbobba!
... proprio come coda zabetta, pignatelli, ecc....