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Darai la caccia agli alci nelle valli boscose intorno alle rovine del Rockefeller Center e cercherai molluschi intorno allo scheletro dello Space Needle, inclinato di quarantacinque gradi. Dipingeremo sui grattacieli le figure di enormi totem e simulacri di divinità maligne e tutte le sere quel che resta del genere umano si ritirerà negli zoo abbandonati e si chiuderà nelle gabbie per proteggersi dagli orsi e dai grandi felini e dai lupi che di notte passeggiano e ci guardano dall’altra parte delle sbarre” (Chuck Palahniuk,
Fight Club, 1996).
Città reali, possibili e virtuali si fondono nelle opere di
Ludovica Carbotta (Torino, 1982), in mostra da Placentia Arte con l’eloquente
Costruttore di mondi molto simili al nostro. Un percorso su due binari, tutt’altro che paralleli, eppure posati sul medesimo terreno interpretativo, alla ricerca dei linguaggi possibili per raccontare lo straniamento nei confronti di una dimensione urbana ormai sfuggita a ogni controllo. Una sensazione di smarrimento che si veste di attonita curiosità, formula contemporanea dell’orrore romantico: a valli e dirupi si sostituiscono boulevard e viadotti; ed è come se i pellegrini di
Friedrich smettessero le ghette per calzare le sneaker.
Ma non è tanto attraverso il figurativo, per certi versi troppo giovanilista, che Carbotta raggiunge un nuovo equilibrio col paesaggio urbano: di vibrante potenza è
Wrapped in thought, scatola magica disseminata di fori diseguali, al cui interno è conservata la polvere raccolta in giro per Torino. Uno dei lati corti è chiuso da un filtro di carta, opportunamente forato, e da un telaietto di calce: posizionando la scatola in luoghi di corrente, è il vento che, incanalandosi, spinge la polvere attraverso il filtro direttamente sulla calce. Creando, a seconda della diversa intensità, suggestive ombre di territorio, preziosi
Senza titolo che registrano l’evanescente respiro della città.
Una gustosa variazione sul tema rispetto ai lenzuoli imbevuti di smog dell’
Io, Roma che
Luca Vitone ha presentato nel 2005 al Magazzino d’Arte Moderna; o, ancora, del tappeto di
Igor Eskinja, intrecciato nella polvere negli spazi che Rovereto ha concesso all’ultima
Manifesta. La nuova tappa di un percorso costruito tra performance e concettuale, con vaghi echi “sociali” alla
Beuys, che vede Carbotta raffinare il proprio linguaggio.
Peccato in galleria ci sia solo un assaggio delle sue opere. Poiché l’appetito vien mangiando, aspettiamo una nuova occasione per misurarci con altri pezzi del repertorio. Magari con l’interessante lavoro prodotto per la Fondazione Ratti: un cono di pellicola fotografica, lungo tanto quanto la profondità massima del lago di Como. È ciò che resta della documentazione di un lungo processo fatto di rilievi, azioni, costruzioni di macchine fantasmagoriche, escogitate per sondare il fondo del lago stesso.