Fra mostri, diavoli, sirene bicaudate e basilischi, il luogo comune vuole che il Medioevo abbia smarrito le tracce dell’arte antica sostituendo la perfezione delle forme classiche con un immaginario grottesco, orrorifico, in una parola gotico. A iniziare la demonizzazione dell’estetica medievale fu, come noto, il
Vasari, che coniò il termine come sinonimo di nordico e barbarico, in contrapposizione al classicismo del Rinascimento, di cui egli stesso si sentiva apostolo ed esegeta.
Per riscoprirne la ricchezza fu necessario attendere la fine del Settecento e i fermenti romantici, che partendo da Inghilterra e Germania portarono alla rivalutazione generale di un’Età di Mezzo letta ora come culla delle identità nazionali e come epoca di rinnovamento (Gregorovius
docet) rispetto alla decadenza -morale, civile, politica, culturale ed economica- del tardo impero. E mentre letterati come Goethe o i fratelli Grimm e filosofi quali Fichte e Schelling elaboravano un’idea di Europa medievale unica nel sentimento popolare e religioso, le celebri riletture architettoniche di John Ruskin e di Viollet Le Duc erano propedeutiche al revival medievizzante che portò al successo del Neogotico.
Medioevo dunque, ora e sempre anticlassico? Niente di piĂą sbagliato. Almeno stando alla mostra
Exempla. La rassegna ricostruisce attraverso illustri modelli (ecco il significato del latino
exempla) quanto nel Duecento italiano artisti come
Nicola e
Giovanni Pisano,
Arnolfo di Cambio o
Pietro Cavallini siano debitori di opere greche, romane ed etrusche e anticipino la riscoperta dell’arte antica che si concretizzerà nel Rinascimento.
A dimostrazione, si vedano i ritratti di Federico II di Svevia. Lo
Stupor mundi, raffinato cultore delle arti intellettuali e venatorie, aveva trasformato la sua corte a Palermo in un crogiuolo di menti dove la venerazione per l’antica cultura si fondeva con le più recenti elaborazioni del mondo arabo. La sua idea di impero, però, era tutta classica, improntata alla celebrazione dell’
auctoritas secondo i modelli dell’età augustea com’è evidente non solo nella sua condotta politica, ma anche nell’iconografia che scelse per rappresentare se stesso e il suo potere. Il suo busto di marmo oggi nella Collezione Santarelli e il ritratto di Augusto del I secolo dai Capitolini sono così affini da aver indotto a datare il primo, anziché al XIII secolo, al pieno neoclassicismo settecentesco.
Si veda la splendida colonna con tre accoliti scolpita da un allievo di Nicola Pisano, forse lo stesso Arnolfo, e la si confronti con l’Ecate trimorfa del I secolo: simili i panneggi pur nella diversità di materiali (marmo contro bronzo), affine l’ispirazione cultuale (funeraria la prima, votiva la seconda), identica la composizione a ritmo ternario.
Si veda infine la donna con brocca scolpita da Arnolfo nel 1281 in marmo di Carrara che, ritratta di spalle con la schiena parzialmente scoperta, ricorda da vicino per postura, atteggiamento e trattamento dei panneggi un’Ifigenia della seconda metà del II secolo.
La mostra di Rimini ha il merito di risvegliare un Medioevo che rifiuta l’idea di rottura netta col passato per suggerire, invece, una continuità carsica. Ma il rilevare la presenza dell’arte classica come fonte di ispirazione per gli artisti medievali non comporta necessariamente che mostri, diavoli e basilischi siano,
au contraire, “arte degenerata”. Una sana lettura del
Libro degli esseri immaginari di Borges o degli studi di Jurgis Baltrusaitis sul romanico basterĂ a convincere gli scettici.