Forse non conoscete Peter Phillips, ma dando una rapida occhiata alle sue opere, capirete immediatamente che è un esponente della pop-art. Le sue tele sono grandi come quelle dell’Abstrac Impressionism che gli anni ‘60 si prefiggevano di distruggere e Phillips segue la tendenza affiancando (e così demitizzando) un ritratto di Pollock a una delle icone camp per eccellenza: Elizabeth Taylor. Continua a rivelare la sua fedeltà utilizzando colori eccessivi, al neon, da fast-
Phillips però è un inglese (nato a Birmingham, classe 1939) e l’utilizzo di icone americane, per lui, era un modo sia per riconoscere l’importanza rivestita dalla politica statunitense, sia un tentativo di ridicolizzarla (e ridicolizzare anche noi, devoti seguaci di questo ‘life-style’ occidentale che venera auto, modelle e cocktail come nuovi idoli).
Il tema del gioco è onnipresente: nei primi anni ’90 Phillips accosta un pomodoro tagliato a metà a una mammella femminile, allo spaccato di un pistone in un tripudio di sezioni chirurgiche. Ma in queste composizioni si avverte già un cambiamento stilistico: le strutture che prima delimitavano le immagini sono diventate vere e proprie griglie. Questi reticolati incasellano porzioni di immagini in una scacchiera-collage fotografico. L’oggetto nella sua interezza non importa più. Anche un semplice dettaglio è sufficiente per evocare una stridente analogia.
Queste cornici vengono poi completamente eliminate nelle opere dell’ultimo triennio (per la prima volta esposte).
In paesaggi dal vago sapore settecentesco (mari in tempesta, fulmini, la baia di Napoli all’alba) ospitano personaggi e oggetti quotidianamente lontani fra loro: un violoncello (che assomiglia alla schiena femminile di Man Ray), un pagliaccio felliniano, dei vecchi ballerini, una coppia di modelle compiaciute, statuette birmane, una silhouette di un gentleman, omaggio a Magritte. L’effetto è volutamente finto, come in un fotomontaggio dove non sia stata uniformata l’illuminazione. Rimane nello spettatore un senso di effimero, di decadenza (molto meno riso che nelle prime opere dai colori assordanti e volutamente finte). L’operazione si è fatta più sottile. Molti elementi continuano ad essere stati shakerati insieme e le operazioni di collegamento sono lasciate completamente allo spettatore. Italo Calvino, in Palomar, diceva che era impossibile trattenersi dall’interpretare, anche non essendoci nulla. Phillips gioca su questo irrefrenabile impulso. Oggetti comuni, nella loro vicinanza, diventano significativi. Significativi di cosa? Significativi.
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bmag.org.uk/Se volete saperne di più sul mondo artistico di Birmingham
comune.modena.it/galleria/2002/phillips
Emanuele Lugli
mostra vista il 10 maggio
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