Il palazzo dei Diamanti di nuovo alle prese con una mostra di respiro internazionale, protagonista questa volta l’inglese Joshua Reynolds. Ottantotto opere per la maggior parte di provenienza britannica articolate in sette sezioni, che danno il ritmo ad un percorso analitico: Autoritratti, Eroi, Aristocrazia, Il tempio della fama, Streatham Worthies, Ritratti femminili, e il teatro della vita.
Raggruppata per soggetti (al posto della più consueta progressione cronologica) l’iconografia reynoldsiana si dipana in una storica galleria di personaggi. All’inseguimento della celebrità altrui, cantata con quello stile prezioso che ancor oggi ci incanta, sapientemente calibrato fra italianitá (Tiziano e i veneti su tutti) e ammiccamenti a Rembrandt, coltivato nei lunghi soggiorni all’estero, viene alla luce quello che fu il suo personalissimo percorso: la creazione del proprio successo. La sua mano felice al servizio dei potenti del XVIII secolo che, in un ammaliante gioco di specchi, non promosse altro che se stessa. E con la circolazione delle riproduzioni a mezzatinta la sua notorietà si proiettò ben presto oltre i confini nazionali.
La qualità delle tele è indiscutibile, sottolineata da un allestimento sobrio, calibrato, attento al rispetto dei temi via via individuati. Ciò che non si può esimere dall’annotare è la monotonia di un pittore che riuscì a trasformare la propria arte in una professione assai attuale, alle esclusive dipendenze del potere.
Il nobile Charles Watson Wentworth secondo duca di Rockingham o il principe del Galles, Giorgio IV sono effigiati ricalcando encomiasticamente l’immagine che l’aristocrazia britannica voleva offrire di se stessa. Con quella lieve solennità che solo un genio del pennello poteva garantire. Esemplare il triplice ritratto delle sorelle Waldegrave, eseguito e successivamente esposto per pubblicizzare la grazia e l’illibatezza delle giovani nubili.
Reynolds seppe innestarsi in quel clima culturale in cui la stessa Inghilterra sentiva il bisogno di dare una ‘forma visiva’ alla propria grandezza. Lo fece con la creazione di nuovi eroi, figure semidivine, modelli del mondo della cultura, dello spettacolo o dell’arte militare. Nobili, Generali, Attori e Attrici, Padri della Patria coloniale sino alla curiosa galleria di Streatham Worthies, collezione di ritratti di viventi che dal 1771 il “facoltoso produttore di birra” Henry Thrale volle per la biblioteca della sua residenza di campagna. Un tempio dei grandi d’Inghilterra, composto da dodici tele fra le quali compare oltre a Edmund Burke, Giuseppe Baretti, Charles Barney ed il suo mentore Samuel Johnson, un autoritratto.
La sala dedicata ai ritratti di dame svela la passione dell’artista per la donne più belle (e discusse) dell’epoca. Volti pallidi e leggiadri che entusiasmarono i contemporanei. Casti calendari per accendere l’immaginario e la passione dell’universo maschile.
Emblematiche sono le immagini che lasciò poi di se stesso: dal ritratto con cui si apre la mostra che lo vede giovane, con la mano tesa sulla fronte, intento a scrutare un avvenire radioso, sino alla tela del 1779-1780 in cui si raffigurò come presidente della Royal Academy. Dove tra l’atro s’intravede un riverente busto di Michelangelo, incline al suo cospetto.
<A href="mailto:s.questioli@exibart.comstefano questioli
mostra visitata il 22 febbraio 2005
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