La sintesi del messaggio di
Mona Hatoum (Beirut, 1952; vive a Londra e Berlino) -figlia di genitori palestinesi evacuati da Haifa nel 1948 e, a sua volta, costretta all’esilio a Londra nel 1975, quando in Libano scoppiava la guerra civile- è
Keffieh (1993-99), un’opera in cui il tradizionale copricapo palestinese, bianco e nero, è tessuto con le ciocche di capelli umani.
L’identità negata, il nomadismo, la minaccia della guerra, un senso di precarietà esistenziale sono alla base dei lavori dell’artista anglo-palestinese, presentati a Ferrara in occasione della XIII Biennale Donna. Appuntamento di straordinaria qualità, organizzato dall’Unione Donne in Italia di Ferrara in collaborazione con la locale Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, che annovera tra le presenze delle passate edizioni artiste della portata di
Carol Rama e
Patti Smith.
Il percorso di
Undercurrents, che ha inizio con l’opera
Doormat II -uno zerbino su cui appare la scritta
welcome, un benvenuto che si rivela tutt’altro che innocuo, visto l’impiego di centinaia di spilli d’acciaio-, si snoda nei due piani del Padiglione di Arte Contemporanea di Palazzo Massari.
Luogo accogliente malgrado le trappole seminate da Hatoum un po’ ovunque: un grande paravento a forma di grattugia (
Grater Divide), la lanterna magica che proietta sul muro soldati con il fucile puntato (
Misbah), raffinati soprammobili in vetro colorato che rivelano la loro natura di granate (
Nature morte aux grenades). In tutto, circa cinquanta opere fra installazioni, video e fotografie, realizzate nel corso della sua carriera ventennale.
L’intento non è quello di scioccare lo spettatore, quanto piuttosto di creare un corto circuito nella sua mente, affinché sia portato a riflettere sulla molteplice realtà delle cose. Nulla è scontato. La casa, in particolare, per l’artista assume una valenza di zona limite, luogo potenzialmente minaccioso, né più né meno di ciò che avviene al di fuori delle sue mura. Ecco allora che scolapasta e mestoli, grattugie e culle per neonati assumono le sembianze di strumenti di tortura.
La stessa tavola apparecchiata diventa qualcosa di indigesto. In
Deep Throath (1996), infatti, basta affacciarsi sul piatto bianco -sulla tovaglia accanto al bicchiere, alle posate e al tovagliolo- per scoprire l’immagine in movimento realizzata seguendo con una sonda endoscopica il viaggio del cibo nell’interiorità fisica dell’autrice, dalla bocca all’ano e viceversa. Sì, c’è ironia nel suo lavoro, questo Hatoum lo conferma sorridendo in occasione dell’inaugurazione della mostra. Una ironia rafforza il contenuto.