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‘Immacolata Concezione’ sembra essere l’espressione più appropriata per alludere al mancato contatto tra l’autore e la (sua) opera, l’astinenza dell’uno riferita alla preesistenza dell’altra. E non si tratta di un assunto, di un dato dogmatico, ma di una sensazione consapevole, di un dato critico se non proprio sperimentale. Non sono (non credo di essere) un soggetto. Non, almeno, quel soggetto per eccellenza che è un autore”. Così
Giulio Paolini (Genova, 1940; vive a Torino) traduce il noto
Art happens di
Whistler. Nessun intervento da parte dell’artista. L’arte può “succedere” o può “non succedere”, ma in qualsiasi caso questo non dipenderà dal suo autore. L’opera preesiste e sopravvive, divenendo irrevocabilmente e definitivamente un oggetto della realtà.
Già dai primi anni ’60, la ricerca teorica di Paolini era arrivata a concepire il quadro come semplice presenza muta, come rappresentazione dei suoi stessi elementi costitutivi. Non più mezzo per trasmettere un’immagine, quindi, ma metalinguaggio, strumento di auto-identificazione, superficie sempre uguale a se stessa nella sua forma più “originale” e autentica. “
L’autore è muto, assente, la voce è dell’opera: l’opera d’arte, però, non dà voce né al mondo né al soggetto, semplicemente dà forma a se stessa”.
Paolini, nel testo
De divina proportione, dice di non credere a ciò che viene rappresentato, ma nel supporto, nella superficie-schermo, come unico e vero soggetto di qualsiasi rappresentazione. Citazione, duplicazione e frammentazione vengono impiegati dall’artista come espedienti per inscenare la giusta distanza rispetto a un modello già compiuto, per fare della propria opera una sorta di “teatrino” in cui un’immagine incognita sfugge costantemente alla sua definizione.
Al centro dell’ex falegnameria, Paolini ha collocato due parallelepipedi trasparenti. Le dimensioni differenti (anche se di poco) delle due strutture permettono all’una di contenere l’altra, lasciando intravedere -appoggiato sul pavimento- un foglio di carta bianca e, al di sopra della “scatola” più piccola, una matita. L’artista ha creato diverse versioni di
Immacolata Concezione e la caratteristica comune a tutte queste opere è la trasparenza dei materiali. Le forme variano, pur rimanendo la geometria di base: sfere, cubi e parallelepipedi si sovrappongono, oggetti di varia natura li circondano, li sollevano dal piano d’appoggio o li cospargono come se fossero stati distribuiti da un improvviso soffio di vento.
Una considerazione di Paolini, scritta in occasione della mostra curata da Germano Celant alla Fondazione Prada nel 2003, può aiutare a capire come leggere e guardare queste opere: “
È il nostro punto di vista, non l’oggetto (sempre uguale o destinato a diventarlo), è la traiettoria dello sguardo (sempre diversa e comunque irripetibile) che disegna, non si sa dove, lo spazio dell’esposizione”.
La nostra persona diviene quindi uno dei vertici che strutturano l’opera, uno degli elementi da cui hanno origine le relazioni di pensiero che generano la nostra stessa visione. Lo spettatore entra nell’installazione, è costretto ad accedere a una sfera interna, a chiedersi il perché della sua presenza e della sua condizione di osservatore.