Spazi d’esposizione differenti per le mostre di Paolo Gioli, Jorge Molder e Perre et Gilles che, insieme alle rassegne dedicate a
Raoul Hausmann e
Wols, costituiscono la sezione intitolata
L’immagine del corpo nell’ambito del Festival Fotografia Europea.
Volti sospesi, dormienti, quasi di morte, urlo muto, violazioni intime, peli e seni, presenza di mani, contorni di colore: una teatralità di sofferenza per
Paolo Gioli (Sarzano di Rovigo, 1942; vive a Lendinara, Rovigo), una nudità che richiama le anatomie dei libri di medicina; anche gli sfondi, gli interventi, strisce impastate, tinte differenti, non trasmettono mai varietà, gioco, allegria. Le braccia alzate che svelano ascelle, costati, non sembrano nascere da desiderio, impulso personale, quanto da un ordine esterno: come per mostrare un segno, una ferita rimarginata, forse. Occhi attoniti, macchie, segni sparsi. Di particolare fascino è l’impasto tra figura umana e materia, come mutando la forza d’assorbimento da semplice superficie piana a “carta asciugante” di un tempo, immaginando il retro con le tracce disordinate di quei corpi, anche le parti femminili svelate, più esperimento che desiderio.
Evoca il protagonista di
The man Who wasn’t There dei fratelli
Coen l’uomo che scivola nel filmato di
Jorge Molder (Lisbona, 1947), in un piccolo padiglione, pochi spettatori alla volta, dall’alto, da una botola di luce, i piedi, il corpo… Infine, la scomparsa, rumore di passi. Così le grandi foto nella vasta sala invasa da molto chiarore. Voglia di anonimato sia nel bianco e nero dell’uomo qualsiasi, figura cinematografica antica dell’investigatore di città, che nelle immagini colorate, sguardi indagatori e pure assenti, ombre di paure e movimenti: una continua dialettica tra presenza e assenza, ampia, prepotente visibilità (grandi ritratti) e impersonalità dell’uomo. I gesti, con la scia dei movimenti, non paiono indicare motivazioni, cause, direzioni, come a ricordare la facilità con cui si scompare, si è trasparenti nel mondo: neppure la fotografia argine al nulla notturno del destino umano?
Come tele di pregio, incorniciate dagli stessi autori, legno scuro, le opere dei francesi
Pierre et Gilles (Pierre Commoy, La Roche-sur-Yon, 1950; Gilles Blanchard, Le Havre, 1953; vivono a Parigi), figure sfumate, riflessi vitrei, pelle e tessuti dipinti in forma indistinta, vaghe percezioni animalesche, corpi non-corpi, parti in posizioni impossibili, caleidoscopi imperfetti che dividono e moltiplicano nascondendo la fonte originaria della visione, corpi intrecciati, feste, piaceri forse, vicinanze, sovrapposizioni che evocano anche i giudizi universali, ma senza moralità imposte. Invisibili specchi deformano corpi vicini, li moltiplicano e li complicano in parti spesso indistinguibili; senza confini anche fotografia e dipinto,
Hieronymus Bosch in imprecisati riti lussuriosi, contatti, riflessi d’acqua. Anche qui però l’impressione è, in quei corpi confusi, spezzati, così scoperti e dipinti, d’assenza di gioia, cupezza comunque in questo nostro presente.
Bellezza e sensibilità estetica paiono come sottrarsi in queste differenti ricerche dagli estremi dell’attrazione e della malattia. Ci si perde piuttosto nella materia, nell’invisibile, nella frantumazione, mettendo così la fotografia quasi in discussione se stessa, documentando, eco del
Qohélet, il nulla che ancora, però, tenacemente chiede presenza.