C’è
qualcosa di primigenio nella poetica di
Emilio Tadini (Milano, 1927-2002), “
lo
scrittore che dipinge, il pittore che scrive”, come disse di lui Umberto Eco. Il suo è un racconto
che interpreta la realtà attraverso un sogno.
Subisce
il fascino della Pop Art inglese, Tadini, quando si esprime col linguaggio
delle cose: quelle del quotidiano, quelle che accompagnano la nostra vita. Solo
apparentemente banali. L’artista, come l’
Alice di Carroll, incontra nella sua
pittura il cucchiaio, la caffettiera, la bottiglia, l’automobile, la fetta di
mela, il bicchiere, il vaso di frutta. Oggetti che paiono magicamente usciti
dalla borsa di Mary Poppins.
In un
contesto di piani spesso inclinati, quegli oggetti che parlano di noi tutti sono
in fuga, rovesciati, sospesi. L’impianto visivo si snoda fra aspetti onirici e reali;
il pensiero accarezza la pittura surrealista e l’opera magrittiana.
Nella
piccola galleria cesenate sono contemplati i diversi cicli dell’opera pittorica
di Tadini, dagli anni ‘70 al 1995, da quello dei
Piccoli valori a quello delle
Città italiane: città raccontate come in sogno,
dove i grattacieli si “muovono”, le lettere dell’alfabeto vagano e le figure sono
come saltimbanchi nella notte blu. Un nome, quello di Freud, parole e grafismi
compaiono qui e là nei disegni come nelle pitture, collocati nello spazio come forme
significanti, a evocare la lezione letteraria futurista. Parole che abitano il
quadro di Tadini, chiamato nel 1947 a collaborare al “Politecnico” di
Vittorini.
Altrove,
in una natura morta, una matita disegna una bottiglia. Un grande rettangolo
bianco, ne
Il posto dei piccoli valori, porta la firma dell’autore al centro; le cose
intorno sono in fuga e la matita di nuovo disegna… un rettangolo che non c’è.
È il racconto di un “
viaggiatore distratto della memoria”, come l’artista amava dire di sé;
e nel racconto di ciò che vive nella memoria onirica è l’elemento fiabesco a caratterizzare
gran parte del suo lavoro.
Un
aspetto, per Tadini, di grande significato, come quando dipinge il profilo d’una
sorta di burattinaio (lo stesso artista) che dirige un teatrino: un
deus ex
machina cui è
affidato l’intervento finale.
Direttore
dell’Accademia di Brera, due volte invitato alla Biennale di Venezia, la sua
produzione attraversa quasi un secolo di storia e porta con sé i segni delle
grandi lezioni di questo tempo. Così compaiono, a volte, segni e tratti che
rimandano alla lezione di
Miró come a quella di
Baj e all’ironia sul potere.
Il suo è,
comunque, uno stile personalissimo: racconta la filosofia della vita con gli
aspetti della fiaba, con le piccole cose di valore, di un mondo vissuto
dentro
la calda vita di tutti
i giorni. Un
mondo dove il caos insegue l’ordine.