Il risveglio dell’attività culturale bolognese è ormai cosa nota. In barba a chi non ci credeva o a chi, non prestando attenzione alle voci che ne parlavano tempo fa anche su queste pagine, profetizzava un trasferimento in massa della scena artistica presso altri lidi. Tempo fa, infatti, si definiva il motore di tale ripresa il progetto Mambo, e attualmente l’attività del museo ne è la conferma. La grande antologica dedicata a
Giuseppe Penone (Garessio, Cuneo, 1947; vive a Parigi e a Torino) si presenta come un progetto organico, dai chiari intenti storici e documentativi, ma con un occhio aperto sul presente.
Il percorso di ricostruzione storica passa attraverso la presentazione dei cicli realizzati dell’artista che, iniziati al termine degli anni ’60, si protraggono durante tutta la ricerca. I
Soffi, tracce a volte labili ed effimere (
Soffio di foglie, 1979), altre volte vigorose e indelebili (
Soffio, 1979) del passaggio dell’artista sulla natura, segnano il sentiero al cammino di rilevamento delle forme naturali esecrato attraverso un “
sistema metrico corporale”. La materia della scultura è solida e gravosa quanto leggera e impalpabile: il peso è lo strumento dello scultore: “
Ogni respiro è una scultura e come il Soffio di foglie subisce ed è il peso del corpo, così i Soffi di creta sono il peso del respiro”, come si legge nella conversazione con Gianfranco Maraniello. Gli
Alberi, a loro volta, sono la manifestazione di un rapporto profondo con le leggi che regolano il mondo naturale, verso lo svelamento di una struttura nascosta, alla conquista dell’elemento generatore.
Operare in linea con il pensiero dell’artista non significa vincolare la sua intenzionalità esclusivamente alla natura: “
Non è stata solo una nuova sensibilità rispetto alla natura, ma anche una volontà dialettica nel reintrodurre un tema dimenticato, perché l’arte – e la discussione sull’arte – è fatta di contrapposizioni di concetti e di linguaggi”, come ribadisce Penone intervistato da Cecilia Braschi.
L’itinerario espositivo, quindi, secondo la volontà congiunta di autore e curatore, si pone agli antipodi del concetto di retrospettiva, puntando maggiormente all’allineamento opera/spazio piuttosto che all’inseguimento delle tappe cronologiche. E neanche alla rincorsa di cataloghi frettolosi e malrifiniti, a cui avvicendare o, meglio, far precedere un delizioso
instant book. Seguendo tali criteri, forse si sacrifica in parte un’attitudine didattica, ma a largo vantaggio della fruizione di opere d’imponenti dimensioni e creando un’atmosfera di sospensione, che privilegia la presenza di spazi dedicati alla concentrazione su un unico pezzo. È il caso della serie
Spine d’acacia che, raccolta in un solo ambiente, dimostra la sua valenza monumentale, senza per questo sacrificare la percezione del particolare. Stesso discorso per
Palpebre (1989-91) e per
Pelle di grafite, nei quali la mimesi della texture minerale diventa epidermide viva dell’opera.
Un tesoro nascosto, un elemento fondamentale è il rapporto con la sfera sensoriale, stuzzicata dai materiali, punta dalle protuberanze acuminate e, infine, estasiata dal profumo di resina conservato in uno
Scrigno.