Tutti al di sotto dei quarant’anni, gli americani in arte si presentano attraverso molteplici espressioni: dalla pittura su tela a quella di decorazione ambientale, dalla fotografia alla scultura, dall’installazione all’oggetto; tre i principali filoni, individuati dal curatore, Per una nuova casa dell’uomo, Per una nuova sensibilità pittorica e L’iperoggetto, ad evidenziare soprattutto un’inversione di tendenza. Officina America, ci lascia in eredità una riflessione di vasta portata che delinea una diversa morfologia rispetto ad alcuni giri di boa che stanno accadendo nella vasta produzione culturale dei nostri giorni. Una produzione, che lega a filo doppio l’arte come la musica e perché no anche il design, la moda e il cinema e che ad un’attenta radiografia presenta la stessa struttura, un medesimo d.n.a.
Gran parte degli artisti presenti in Officina America, a differenza di quello che era accaduto negli anni ’90 con l’affermarsi del post-concettuale, sono pervasi da un’esigenza di calore, di voler generare impatto emotivo nel pubblico, di giocare con lo stereotipo, la merce, l’artificiale, insomma tutto quell’immaginario che all’epoca (negli anni ’60) fu messo in circolo dalla Pop-Art. Ed è questo che appunto Barilli rileva analizzando la situazione Americana: un desiderio collettivo di concretezza, d’immediatezza, di proporre un’arte user-friendly. Le ultime generazioni hanno assimilato la logica dei mass-media e non hanno più bisogno di doverla dimostrare, a vantaggio di una libertà espressiva totale: e allora, senza alcuna distinzione si avvalgono di un pc o una videocamera e così come della fotografia ed infine persino e soprattutto della pittura (genere tanto ripudiato negli anni scorsi). Lontani dalle speculazioni su mezzi e linguaggi gli artisti hanno voglia di comunicare e piacere a tutti così come accade contemporaneamente nella musica: le fredde e cerebrali composizioni strumentali post-rock, che avevano fatto piazza pulita della forma canzone, cedono il passo ad un inaspettato rientro di nuove melodie, mentre la musica elettronica si riscalda ritrovando i piaceri di una ritmica più robusta, si perde in divagazioni ambient o s’immerge in tinte dal gusto pop. Arte visiva e musica, allora, parlano un linguaggio diverso, sintomo di una nuova sensibilità capillarmente diffusa. Proviamo allora a tuffarci in un breve parallelo tra la produzione visiva e musicale partendo da alcuni degli artisti presenti in mostra.
Per la fotografia la mostra presenta esempi splendidi. Gli scenari ritratti dall’artista americana Susan Graham nei suoi Landscape fotografici: piccoli oggetti di zucchero che abitano paesaggi stranianti, senza colore. E come colonna sonora cosa potremmo metterci? Le composizioni strumentali folk, le melodie malinconiche e i testi struggenti ed ironici di una band come i Black Hearth Procession: paesaggi sonori quasi in bianco e nero, sospesi e surreali, dove il dolce è stemperato nell’amaro. E le fotografie d’ambiente di Nicolas Baier? La certezza di avere a che fare con accoglienti interni domestici è alterata da interferenze e impulsi stranianti che spostano la nostra attenzione: proprio come i Pulseprogramming, formazione americana, che attuano all’interno di strutture jazz spostamenti ottenuti tramite sensuali suoni elettronici.
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Marco Altavilla
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