Gallleriapiù e Ivana Spinelli si erano già felicemente incontrate negli anni passati, prima dell’ultimissima mostra a cavallo tra il 2016 e il ’17. Quando la galleria si chiamava Oltre Dimore e l’artista tornava a fare su e giù da Berlino, dove ha il suo studio.
Il pubblico bolognese infatti conosce e ricorda la Spinelli per una personale, tra le altre occasioni, intitolata “Loverrs/Fuckerrs” curata da Raffaele Gavarro nel 2012 e per il progetto “Global Sisters”, che hanno introdotto al suo taglio, estetico e d’approfondimento, politico-sociale.
Con “Minimum”, inaugurata a fine anno scorso e appena conclusa, è trionfato questo filtro e si è ribadita inoltre un’inclinazione all’editoria, perfettamente in comune con la gallerista Veronica Veronesi. Dalla mostra – sarebbe meglio dire con la mostra – si è sviluppato un libro d’artista che ne racchiude la gestazione e il percorso del quale si parlerà ancora in prossime presentazioni già in calendario. C’è da sottolineare che “Minimum” ha preso corpo da uno studio, tutt’altro che autoreferenziale, sulla condizione del lavoratore contemporaneo, a partire dal minimo salariale che gli è concesso in diversi paesi del mondo. Per farlo si è stretta l’attenzione sul comparto del tessile e abbigliamento Made in Italy (laddove la moda si divide tra la produzione di oggetti e di immaginario), prendendo in esame la normativa di riferimento che ne regolamenta i presupposti. In questo modo la Spinelli ha riportato i dati relativi alla qualità del lavoro di chi produce nell’indotto delle aziende italiane, in un confronto etico e numerico tra Italia, Cina, Bangladesh, India, Indonesia, Marocco, Portogallo, Romania e Turchia, innanzitutto. Partendo dai primi enunciati del CCNL Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, ha svolto una strutturazione critica sul “salario minimo” e sul “salario sufficiente per vivere”.
Ci aiutano a entrare nel vivo le parole di Silvana Borutti: «Minimum è un significato che investe il corpo del lavoratore nel rapporto sociale capitalistico, dove il dispositivo del salario traduce il corpo in merce, traducendo in denaro la riproduzione minima di quel corpo: la sua ripetibilità minima, la sua sussistenza, in ultima analisi, la sua stessa possibilità di esistenza».
La chiave di lettura del progetto è l’atto della traduzione, alla quale è stata sottoposta la legge vigente sul salario minimo nelle lingue degli otto Paesi suddetti che maggiormente concorrono a produrre il Made in Italy. In quanto “Fatto in Italia” significa proprio fatto nel mondo!
Traduzione intesa come scambio linguistico e confronto, arricchimento nei contenuti e perdita in termini filologici (lost in translation); concetto che è stato così egregiamente riassunto: «la traduzione come differenza che lega».
L’attraversamento di questa mostra esplica chiaramente tanto le volontà dell’artista, quanto le intenzioni della galleria, nelle sue diverse proposte: l’arte traduce esperienze su diversi livelli, che possiamo riconoscere sensibilmente dagli oggetti, negli oggetti, ma offre altri canali impareggiabili che superano l’approccio estetico. Lo stupore e il godimento possono nascere dall’eccezionalità dei contenuti.
Lo conferma l’apparato di contributi testuali suggeriti di fianco alle installazioni, alle sculture e ai disegni di “Minimum”. Compreso l’intervento compiuto direttamente su un vecchio volume dell’Enciclopedia Einaudi che contiene la definizione di “salario” compiuta da Silvana Borutti e che vista in una dimensione diacronica, passando dalla scelta dell’artista, viene ricontestualizzata proprio come fa un traduttore attraverso il sentimento della sua lingua.
Spunti elegantissimi della Spinelli che mette in campo un’estetica di sintesi che rimanda all’infografica – come ne La zattera (Salario minimo contro livello di povertà) costruita con cartoni, lamiera ondulata usata, parquet, legno e acrilico – ai diagrammi (su carta), alle mappe concettuali (Corpo Capitale Linguaggio, serie di disegni in cornice, pastello e inchiostro di china su carta), all’istituzionalità iconica (CCNL Traduzioni, 9 bandiere, stampa su tessuto sintetico su aste in alluminio anodizzato, 2016), appunto, dei contenuti.
Ivana Spinelli applica con consapevolezza un filtro geografico glocale (per citare il compianto Zygmunt Bauman) alle informazioni raccolte su scala mondiale e alle opere ottenute, ponendo interesse sulla dinamica delle relazioni: tra le parole e le azioni, tra le forme e i significati, la collettività e gli individui. Ci indica quanto le relazioni possano essere prepotenti ma anche in grado di sprovincializzare l’emozione e delocalizzare il pensiero… rispecchiando quanto sta avvenendo alla produzione industriale nel mondo!
Ed ecco venirci incontro Franco Bifo Berardi col suo testo contenuto nel libro, dimostrandoci che «l’intellettualizzazione dei processi produttivi, e la riduzione del tempo di lavoro necessario fanno dei prezzi un indicatore aleatorio dei rapporti di forza temporanei, e riducono il salario a una superstizione sempre più spesso sostituito da forme di nuova schiavitù, di lavoro gratuito obbligatorio, oppure dalla brutalità pura e semplice dei rapporti di forza.» E il lavoro dell’arte non rivela, se vogliamo, questa condizione?
«Lavoro, salario, accumulazione, valore non sono dati naturali, ma convenzioni socio-semiotiche. Le convenzioni però non sono soltanto segni che marcano la vita reale ex post, sono anche cornici di significazione che pre-formano le nostre aspettative e le nostre modalità di interazione. Le convenzioni semiotiche costituiscono un codice che ci permette di avere accesso alle procedure di scambio senza le quali la sopravvivenza diviene impossibile, o per lo meno molto difficile».
Si parte dunque da un nucleo minimum specifico, quello normativo di un tale settore, per lasciare che si allarghi, traducibile in altri campi, con linguaggi sorprendentemente diversi.
Cristina Principale
Gallleriapiù
Via del Porto 48, Bologna
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